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Tema: Estate 1973

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Tema: Estate 1973A Napoli c’era stato il colera, lì invece solo una mareggiata. Il mare aveva vomitato pesci di ogni tipo. E poi molluschi. seppie, soprattutto, e grandi tartufi di mare che agonizzavano con la loro lingua rossa da rondini messa un po’ di traverso. “Inservibili” sbottava il nonno spostandoli con una canna, un po’ disgustato. Era molto dispiaciuto, per la perdita di tutto quel cibo.A me piaceva quel tempo da fine del mondo, caduto chissà come sulla costa adriatica nel mezzo dell’estate a rovinare vacanze tedesche da poco prezzo. Perciò andavo di corsa: ero felice. Di cosa, non me lo ricordo.Saltellavo contro il cielo nero sull’argine che separava il mare piatto e basso dal camping Marotta, residenza estiva dei poco più che poveri. Cento tende ammassate sotto pioppi fanciulli dalle foglie inesistenti. Io saltavo felice e guardavo le onde arrabbiate, chissà poi perché erano arrabbiate. E sul filo di quell’agitazione di schiuma raccoglievo tesori di ostriche piatte, che sembravano vecchie ciabatte logore e dai denti appuntiti. Conchiglie da strega. Le avrei scambiate con gli altri ragazzi, presi come me dalla febbre della mareggiata. Il terzo giorno vidi quella conchiglia enorme, che stava proprio sull’orlo della battigia. E sentii il vociare di altri cacciatori di tesori, in cerca come me dell’esemplare più grande. E con la coda dell’occhio contemporaneamente scorsi su un cespuglio dietro di me anche un libro. Tutte quelle pagine aperte. Svolazzavano come sfogliate dalla mano di chissà chi. Dovevo scegliere cosa prendere e scelsi.Mi precipitai verso la grande conchiglia rosacea. Una di quelle che il barista Anselmo teneva sopra alle bottiglie dei liquori, attaccate a una rete. Solo molto più grossa.Per il libro non ci fu più nulla da fare. Lo vidi finire in mano al nemico.Il romano se lo rigirò tra le mani per un attimo e, quando forse aveva già deciso di gettarlo al vento, vide da lontano il mio sguardo di desiderio. Allora fece un sorriso maligno come di sfida e lo mise al sicuro nella busta di plastica blu.
Quella sera le contrattazioni sarebbero cominciate presto. Misi al sicuro la regina delle conchiglie tra gli asciugamani da mare, nella borsa che penzolava dalla sdraio su cui il nonno emetteva brontolii misti a sbuffi di sonno. Non l'avrei portata con me, era esclusa da qualsiasi mercato.Avevo molto pensato al libro. Praticamente tutto il giorno.Mi presentai davanti alla tenda del romano con due grandi buste rosse piene di conchiglie. Sarebbero bastate. Pecten striati dal catrame, cresciuti all’ombra delle piattaforme di estrazione, ostriche e ghirigori dalle ardite geometrie che puntavano in alto e  promettevano un cielo, oltre alla terra e al mare che tutti già conoscevamo.“Te ne posso dare trenta, per il libro” dissi con fare noncurante. Neanche sapevo che libro fosse. Potevo solo intravedere la copertina arancione che si affacciava da sotto un cumulo di giornaletti. Ma lo volevo. Restava in me il dubbio di aver scelto male, nella fretta di arraffare la conchiglia avevo forse perduto un tesoro molto più grande, e questo mi dava una sensazione di angoscia.“...Vvedi de nun fa 'a furba e va a prenne quella grossa, che è mejo”, disse il romano. Io deglutii pensando al nonno sulla sedia, e alla regina vicino al nonno, al sicuro tra gli asciugamani. Feci ritorno alla tenda, il nonno era andato a letto. Sentivo il suo russare che qualche anno più tardi avrei paragonato al suono di un violoncello, basso e persistente. Anche quando stava in silenzio, nelle pause, permaneva una nota grave ed elegante nell'aria.Strinsi forte nella mano la regina, che nella mano neanche ci stava tutta. Rimasi un attimo sospesa, smarrita, con lo sguardo indeciso tra l'apertura dell'uscita e un barattolo di Nutella che la nonna teneva in bella mostra per la merenda. Che tempo avrebbe fatto, il giorno seguente? Avrei potuto nuotare? Come avremmo fatto a camminare sulla spiaggia, con tutte quelle conchiglie a tagliarci i piedi?Soprattutto, perchè pensavo tutte quelle cose inutili? Si trattava di decidersi a uscire, tutto qui.L'aria era fresca, niente a che vedere con un vero luglio.I nostri vicini di tenda erano tedeschi, grassi e rosati. Niente li toccava, niente li incuriosiva, tutto li faceva ridere tra smorfie di beatitudine alcolica.I tedeschi e la birra, due cose che alla nonna non piacevano per niente, specie se accoppiate. Avevo speso inutilmente due giorni di vacanza per cercare di comunicare con la mia vicina Dagmar. Le avevo mostrato le mie ciabatte a forellini con l'incrocio in plastica, poi il pettine, l'asciugamano, una penna, il giornale. Niente. Non era riuscita a dire neanche shampoo, che si dice così dappertutto.Allora avevo rinunciato. Era scema, avevo deciso.Quella sera i tedeschi ridevano. Dagmar mi apparve da lontano solo come una figurina rannicchiata e triste, mentre con il mio tesoro mi avviavo verso la decisione più difficile della mia vita.
Nella notte il campeggio viveva di una vita affascinante e misteriosa. A ogni angolo cambiava il mondo, cambiava la prospettiva. Ogni tenda viveva per conto proprio.Il bar di Anselmo era il centro di ognuna di quelle minuscole unità satelliti. Quella sera c'era una musica diversa, non il solito juke box.Era un suono da circo, come un flauto lamentoso. Decisi così che il romano poteva aspettare. Avrebbe aspettato. Del resto non poteva fare altro: io avevo la regina, avrei fatto quel che volevo.Il grande Barak era fermo al centro della sala, che era stata ricavata nel patio antistante al bar grazie a una cornice improvvisata di sedie di plastica.Le odiavo, quelle sedie lì. Il cavo di plastica morbida che le avvolgeva tutte, spalliere comprese, con il peso del corpo entrava nella pelle e la segnava. Signore più o meno prospere si alzavano con il deretano a righe rosse e il tessuto delle mutande infilato per almeno due centimetri dentro la pelle. Il primo gesto dopo l'alzata consisteva così sempre nello sfilare la biancheria intima penetrata fin dove chissà. Ormai non ci faceva più caso nessuno, non era neanche visto come un gesto maleducato. Le più raffinate si mettevano con la schiena contro il muro, ma si vedeva lo stesso, quello che facevano.Barak era un fachiro. Aveva il letto di chiodi e ci stava sopra come nella pubblicità del Permaflex. Mangiava il fuoco senza bruciarsi, le spade senza tagliarsi. Io però restai per la cesta. Tutti lo osservavano in silenzio e anche lui era serio. Lasciò il serpente per ultimo. Un bellissimo pitone o forse un boa. Grigiastro e beige, lucidissimo che pareva appena verniciato. Ci giocò in molti modi diversi, lo baciò e gli sussurrò parole dolci, poi con un sorriso lo offrì agli spettatori presenti. Una carezza? Una foto ricordo?Era grande Barak. Io lo immaginavo girovago, alle prese con avventure e avventurieri. Non lo avrei voluto sapere in caccia delle cinquemila lire giornaliere che gli servivano per sopravvivere, a lui e al serpente. Non lo avrei voluto sapere di Pesaro ma di Calcutta o Bombay. Si dipingeva la pelle alla perfezione e pareva proprio un indiano, se è per questo.Così io alzai la mano. “Io! Voglio toccarlo, per piacere!”Dicevo sempre così: per piacere, al fornaio, al gelataio, alla maestra che distribuiva i compiti. Anche a me, per piacere. Me ne dia un chilo, per piacere.Vorrei toccare il serpente. Per piacere, si intende. Perchè mia nonna è così che mi ha insegnato, la signora Ida, che l'educazione sta bene dappertutto, anche al gabinetto.Forse per questo io immaginavo la nonna chiedere permesso ai sanitari e dare addio ai propri escrementi con deferenza. Anche adesso, me la immagino così. Educata anche al gabinetto. E dunque non potevo fare a meno di essere educata, e non formale, molto convinta. Barak allora mi guardò e mi pesò come si può pesare qualcosa di sette anni con un'enorme conchiglia in mano. “Vieni” disse.Il serpente intorno al mio collo è morbido. I ragazzini del campeggio mi guardano atterriti. Io non ho paura. Io non ho paura di niente.Non temo i corpi vicini dei miei nonni, che paiono già morti mentre dormono. Non temo i miei genitori che parlano di divorzio e urlano e poi mi sorridono e io non capisco niente ma mi sento sopra un filo, altissima e sospesa.Non ho paura di niente.Sono una regina che stringe in pugno una regina. Mi temono, mi invidiano, hanno paura di me. Sono più forte dei ragazzi, conosco come andrà a finire tutto questo e non ho paura.Berrò la mia prima birra che mi ha offerto Barak, e vomiterò prima di tornare a dormire, proprio vicino all'entrata della nostra tenda. Così la nonna il giorno dopo potrà dire “Questi porci di tedeschi. Ubriaconi.” e io starò zitta, arrossirò in silenzio e mai le dirò la verità. Stringerò in mano la mia regina e mai la baratterò, fino a che la riporrò in un cassetto e alla fine la butterò via, durante un trasloco, dopo venti anni.Ma questo non lo saprà nessuno. Resterò in silenzio come Dagmar, che era sordomuta.
R.L.
Tema: Estate 1973

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