Svolgimento
Il palazzo viveva. Grande e solido come un generale, era di mamo e ottoni. Di ferro e di vetro. Le porte lucide. Le guide, verdi in primavera e rosse d'inverno, riscaldavano un poco i vecchi scalini. L'ascensore partiva con un lamento e con un sospiro di sollievo si fermava ai piani.Noi eravamo bambini, e lo abitavamo con le nostre famiglie. Prima di noi c'erano stati altri bambini, altri ne sarebbero venuti dopo. Il tempo e la memoria. Ma noi, allora, vivevamo un presente eterno e la memoria non ci insidiava. Non potevamo usare quell'ascensore, nè camminare sulle guide. Avevamo magliette a righe rosse e blu quando arrivava il caldo e cappotti troppo grandi quando c'era freddo. Molti di noi avevano scarpe alte e nere che dovevano dissuadere i nostri piedi dall'andare in dentro, o in fuori, o un po' di qua e un po' di là. Dovevano insegnarci a camminare dritti, insomma, "sulle strade della vita". Erano gli anni 50, c'era ancora da sognare.Noi bambini facevamo parte di quel sogno delle nostre famiglie, ed eravamo destinati a deluderlo.C'eravamo io, Daniela, Rosalba, Patrizia, Claudio, un Carlo che restò poco, Rocco, Maurizio, Riccardo e Rossana che erano i figli dei portieri, fratelli fusi insieme da un segreto banale, poi tragicamente svelato. Tutti avevano dei fratelli, tranne me. Non parlavamo di quello che ci succedeva a casa, ma il Cortile del Palazzo lo echeggiava, portando discussioni, risate o scapaccioni su dal primo piano fino all'ultimo e ritorno. I muri respiravano. I tubi erano vene. E quando, in tutte le case, alla stessa ora, si accendevano le luci, era come se il Palazzo avesse un brivido lungo la schiena.A quell'ora si cenava, assonnati, con le gambe pendoloni. E "togli il gomito dalla tavola: che, ti pesa la testa?" era un ritornello per tutti. La minestra, lo stracchino, gli sfilatini nel cestino del pane, una mela. Noi bambini non si poteva parlare a tavola, e, se i Grandi ne avessero trovato il modo, non ci avrebbero neppure fatto ascoltare.Non che ci fosse molto da imparare da quella generazione di padri preoccupati e madri afflitte, ma come pensavano che saremmo diventati intelligenti? E infatti molti di noi non lo sono diventati. Altri sì, ma per disperazione.
Dopo quel Carosello che ci avrebbe perseguitato per tutta la vita, diventando memoria di tutti e non solo nostra, come sarebbe stato giusto, si andava a letto. Con la mela sullo stomaco. Le case, le nostre case, a quei tempi erano monumenti alla nostalgia.C'era un po' di tutto, perchè non si buttava nente.C'erano spesso anche i nonni. Noi eravamo figli di gente "perbene", gente che poi avrebbe fatto un po' di soldi. Chi più chi meno. Avevamo salotti pomposi, freddi in ogni stagione, perchè non ci si entrava mai. Grandi divani a fiori, il pianoforte arrampicato sul muro e umiliato da ninnoli, lampadari tintinnanti, tappeti, austere marine alle pareti, ritratti di damine o pastorelle, trine sparse. Avevamo cucine grandi, con il tavolo dal piano di marmo e le sedie di legno. Avevamo lo scaldabagno a gas. Sicuro quanto una bomba a mano, ma lo sapevamo. Sapevamo che altri bambini, in altri Palazzi, si lavavano con l'acqua fredda. Al pensiero ne provavamo un brivido, immergendoci nel bagno caldo del sabato sera.Così come rivolgevamo un pio pensiero ai bimbi poveri, spesso addentando la pastarella con la panna della domenica. Spesso si divideva la camera da letto con qualcuno della famiglia. I più fortunati avevano i fratelli, altri un nonno vedovo o una zia.Ognuno di noi bambini pensava che la notte degli altri fosse assai migliore. Andavamo alle elementari e i nostri quaderni avevano un odore di buono di bambini puliti e di merenda. Andavamo tutti nella stessa scuola di suore dietro l'angolo, accompagnati dai nonni o dalle cameriere. I cappotti troppo grandi ci impedivano di correre, ma a quell'ora del mattino non ne avevamo neppure troppa voglia. Ancora calducci di letto arrancavamo appesi a mani nude. Quell'oggetto tessuto con sadismo che chiamavano "passamontagna" ci regalava l'aria paffuta e il mal di testa.
Serena Iannicelli