Magazine Diario personale
C’era un buco nella terra, rotondo, proprio nella piccola scarpata bassa che separava la terrazza dalle altre. Un appezzamento di terreno sulla collina, prima seminativo, grano, leguminose, a periodi alterni, lo facevano i nostri padri, per non impoverire il suolo e la loro terra era contenta e generosa. Poi non si seminava più e il terreno venne convertito in frutteto, mio padre lo fece trasformare in tante terrazze lunghe e strette, curve di livello che percorrevano la superficie. Sulle terrazze ci piantò i peschi, lungo i bordi cotogni e peri e prugne, per contenere la terra, e poi tutto un sistema di solchi e di tubi in plastica per distribuire l’acqua a ciascuno degli alberi. Le pesche erano quelle con la buccia liscia, bianche e profumate, avevano un buon mercato a quei tempi, durarono una ventina di anni. Adesso c’era questo buco perfettamente rotondo, proprio nella piccola parete verticale di terra. Era un buco di pochi centimetri di diametro. Non so perché aveva attirato la mia attenzione, mentre percorrevo il terreno ormai sgombro dagli alberi, coperto soltanto di erba spontanea, borragine, gramigna, certe varietà di cicoria. Il buco mi sembrava profondo, poteva essere la tana di qualche animale, mi avvicinai per guardarci dentro, ma dentro era buio. Raccolsi tra l’erba il bastone dritto di un pruno selvatico e con quello provai a verificarne la profondità, riuscii a infilarlo quasi completamente, circa un metro, poi il palo toccò duro e si fermò. Non andò più avanti né indietro, qualcosa lo aveva bloccato e lo tratteneva. Tirai piano, poi con più forza, con il risultato di non ottenere niente, il bastone rimaneva piantato nella terra, e sporgeva dalla terra per fare da antenna alle comunità dei centopiedi. Feci leva, spinsi con il peso del mio corpo, provai a scuotere, a strattonare, sudai, mi feci male ai polsi, senza smuoverlo di un millimetro. Tutto inutile.
Per oltre trenta anni, il palo di legno è rimasto lì. Il terreno lo abbiamo venduto, anche bene, perché era passata la voce di questa stranezza, la gente era curiosa e superstiziosa. Poi gli hanno costruito intorno una specie di protezione, come una cappella, sembra una tomba gentilizia, col suo portoncino di ferro battuto. Una strada asfaltata che arriva proprio sul confine permette di raggiungere la cappella con il bastone, comodamente e senza sporcarsi. Molta gente viene a vederlo di proposito, con la famiglia, i bambini curiosi lo toccano e guardano il papà, ridendo divertiti. Ogni giorno qualcuno prova a tirarlo fuori, con uno sforzo inutile. Vengono da tutta la regione, anche dalla capitale o da altri paesi, ci organizzano delle scommesse, gli amici in gruppo hanno un modo originale di passare i pomeriggi estivi, fanno le gare, ognuno con la sua tecnica personale, ma tanto è tutto inutile, anche loro lo sanno, continuano a sfidarsi, sudare, farsi male ai polsi, bestemmiare e scommettere, ma è inutile, il palo non si muove. Di tanto in tanto, un’automobile scura di grossa cilindrata con i vetri oscurati si ferma davanti alla cappella, scendono un paio di uomini con occhiali neri, poi scende anche il tipo in vestito grigio, sul portoncino si toglie la giacca, la consegna a uno dei due, poi entra. Il palo è lì che lo aspetta, un moncherino sporgente, l’elsa di una spada, lo sfida, liscio e lucido, dopo essere stato agguantato e strattonato in mille modi da mille altri come lui, già sa che quell’uomo silenzioso uscirà fra dieci minuti, un po’ abbagliato dal sole, con i polsi doloranti, tutto sudato e molto incazzato. Anche lui ha voluto provarci, spinto dalla moglie, dall’amante, dai compagni di partito. Il palo conficcato nella terra aspetta da trenta anni, il primo uomo che riuscirà a tirarlo fuori diventerà il nuovo presidente.
Raimondo QuaglianaAutore segnalato alla XXVI edizione del Premio Calvino
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