Caro Roberto, mi sento adesso, in questa fase di mimetismo letterario che segue alla lettura del tuo Betty, come Herzog, il personaggio di Saul Bellow che scrive lettere in continuazione ma senza spedirle. Egregio Signor Presidente, carissima Ramona, Moses!, senti bello, caro Governatore Stevenson. Il tuo libro scatena questa voglia di “vivere esperienze non nostre aprendoci al mondo”, come scrive Remo Bodei. E’ quanto provoca ogni narrazione per la verità. La tua però ha qualcosa in più. Un gioco sottile di rimandi. Come trovarsi seduto dal barbiere. Uno specchio che riflette un altro specchio, creando quell’illusione di infinito che ti spinge a cercare lo sguardo dell’ultimo te che ti sta osservando, minuscolo laggiù in fondo, sapendo che poi ce n’è un altro e un altro ancora.Autofiction. Questo è il termine -pur abusato-che mi aiuta a capire un modo di scrivere storie a metà tra l’autobiografia e la finzione. Di autobiografico in Betty c’è molto poco in verità. Ti si scorge appena all’inizio e alla fine in quel ristorante di Porquerellos. Immagino mentre, in quel luglio 2006, ti siedi a L’Escale, dopo aver attraversato la sala guardandoti attorno, cenare in silenzio, leggendo qualcosa oppure semplicemente continuando a osservare i particolari della sala, come solo uno scrittore sa fare, fino a scorgere il quaderno lasciato su una sedia del tavolo accanto al tuo, Toccare con i polpastrelli, quasi come una carezza, l’etichetta dove c’è scritto Sim. Consegnare il quaderno al proprietario del locale. Cerco di immaginare, chiudendo gli occhi- naturalmente-il sapore e il colore e l’odore della Bouillabatisse, ordinata qualche sera dopo e che tipo di sigaro fumasse il ristoratore. Di certo non un toscano, presumo. L’autofiction è una brutta bestia che ha preso alla gola uno come Michel Houellebecq, fino a farsi a pezzi dentro il suo La Carta e il territorio, che lascia insonne Emmanuel Carrère mentre insegue il fantasma di Limonov.Infine la cosiddetta riscrittura. Mentre leggevo il tuo libro ho twittato notazioni, ho citato qualche passaggio. Ho provato insomma a essere te. Un altro gioco mimetico. Un altro modo di specchiarsi. In fondo la tua stessa operazione letteraria, che naturalmente è molto più corposa e definita.E poi quel titolo de La Lettura, sbirciato mentre terminavo il libro. Il poeta sei tu che leggi.Mi piace chiudere questa mia con le parole della nostra comune amica Sandra Petrignani.Il fatto sorprendente è la capacità di avvicinarsi alla vera personalità dei suoi protagonisti e di renderli vivi tanto più si allontana dall’aderenza ai fatti avvenuti.E può capitare, leggendolo, che si creda al suo Simenon a Porquerolles come si crede alla Virginia Woolf di Michael Cunningham in Le ore in una bella confusione fra immaginazione e realtà. Così un po’ di autofiction l’ho fatta anch’io.Antonio Prenna
Magazine Diario personale
Caro Roberto, mi sento adesso, in questa fase di mimetismo letterario che segue alla lettura del tuo Betty, come Herzog, il personaggio di Saul Bellow che scrive lettere in continuazione ma senza spedirle. Egregio Signor Presidente, carissima Ramona, Moses!, senti bello, caro Governatore Stevenson. Il tuo libro scatena questa voglia di “vivere esperienze non nostre aprendoci al mondo”, come scrive Remo Bodei. E’ quanto provoca ogni narrazione per la verità. La tua però ha qualcosa in più. Un gioco sottile di rimandi. Come trovarsi seduto dal barbiere. Uno specchio che riflette un altro specchio, creando quell’illusione di infinito che ti spinge a cercare lo sguardo dell’ultimo te che ti sta osservando, minuscolo laggiù in fondo, sapendo che poi ce n’è un altro e un altro ancora.Autofiction. Questo è il termine -pur abusato-che mi aiuta a capire un modo di scrivere storie a metà tra l’autobiografia e la finzione. Di autobiografico in Betty c’è molto poco in verità. Ti si scorge appena all’inizio e alla fine in quel ristorante di Porquerellos. Immagino mentre, in quel luglio 2006, ti siedi a L’Escale, dopo aver attraversato la sala guardandoti attorno, cenare in silenzio, leggendo qualcosa oppure semplicemente continuando a osservare i particolari della sala, come solo uno scrittore sa fare, fino a scorgere il quaderno lasciato su una sedia del tavolo accanto al tuo, Toccare con i polpastrelli, quasi come una carezza, l’etichetta dove c’è scritto Sim. Consegnare il quaderno al proprietario del locale. Cerco di immaginare, chiudendo gli occhi- naturalmente-il sapore e il colore e l’odore della Bouillabatisse, ordinata qualche sera dopo e che tipo di sigaro fumasse il ristoratore. Di certo non un toscano, presumo. L’autofiction è una brutta bestia che ha preso alla gola uno come Michel Houellebecq, fino a farsi a pezzi dentro il suo La Carta e il territorio, che lascia insonne Emmanuel Carrère mentre insegue il fantasma di Limonov.Infine la cosiddetta riscrittura. Mentre leggevo il tuo libro ho twittato notazioni, ho citato qualche passaggio. Ho provato insomma a essere te. Un altro gioco mimetico. Un altro modo di specchiarsi. In fondo la tua stessa operazione letteraria, che naturalmente è molto più corposa e definita.E poi quel titolo de La Lettura, sbirciato mentre terminavo il libro. Il poeta sei tu che leggi.Mi piace chiudere questa mia con le parole della nostra comune amica Sandra Petrignani.Il fatto sorprendente è la capacità di avvicinarsi alla vera personalità dei suoi protagonisti e di renderli vivi tanto più si allontana dall’aderenza ai fatti avvenuti.E può capitare, leggendolo, che si creda al suo Simenon a Porquerolles come si crede alla Virginia Woolf di Michael Cunningham in Le ore in una bella confusione fra immaginazione e realtà. Così un po’ di autofiction l’ho fatta anch’io.Antonio Prenna
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