Magazine Diario personale
Svolgimento
Ero certa che sarei morta. E invece le undici ore di volo transoceanico: diretto Palermo- New York, mi avevano risparmiata solo perché potessi schiantarmi a bordo di questo taxi giallo guidato da un pazzo di colore con una foltissima capigliatura riccia. Portarsi i cannoli appresso e poi spiaccicarsi sulla Fifty avenue. C’ era bisogno? Potevo semplicemente attraversare viale Regione Siciliana a Palermo e sarei stata subito accontentata. E invece eccomi qua. Mi guardo attorno incredula; che prodigio! Per me dovrebbe essere già mezzanotte e invece il sole è alto e la città in frenetica corsa, come questo speedy-taxi che mi porta a Times Square. Dal finestrino intravedo persone nel loro andirivieni quotidiano, colori, luccichii. La famosa America: il sogno lontano. Non mi sembra vero! L’appuntamento con lo zio è proprio qui. Per impegni di lavoro non poteva venirmi a prendere direttamente all’aeroporto. Scendo all’indirizzo che ho dato in un pizzino al tassista: un grande albergo vicino Brodway con grandi porte girevoli come nei film: quasi quasi mi faccio un giro come in Sliding doors. Scendo dal taxi e alzo lo sguardo: rimango sbalordita; mi sembra di essere all’ interno del film Blade Runner: grattacieli e maxi schermi a led che proiettano continuamente pubblicità ammiccanti e colorate ovunque si guardi. L’affollamento delle strade, in cui camminano centinaia di persone di etnie diverse, alti, bassi, biondi e bruni, magri e, soprattutto grassi, è incredibile. Odori nauseabondi mi attorniano: scopro provenire da un furgoncino all’angolo del marciapiede. Un uomo al suo interno serve una specie di salatino gigante spolverato di zucchero ad un altro che lo afferra avidamente. Potrei morire! Mi sento piccola, piccola, nelle fauci della grande mela e ancora non si vede nessuno! La gente mi passa accanto ma nessuno sembra notarmi: sono parte di questo palo pubblicitario al quale mi appoggio. Ma ecco arrivare lo zio trafelato, mi rincuoro subito, tirando un sospiro di sollievo. Lo zio è come nelle foto solo con meno capelli; ha il ventre prominente e il sorriso bonario: il classico pizzaiolo siciliano, emigrante, sessantenne. Mi fa cenni da lontano perché non può posteggiare in strada e infatti già un poliziotto gli si avvicina facendo dei cenni perentori. Mi dirigo, con il mio piccolo trolley, verso la macchina, attenta a non farmi travolgere dai tassisti folli e dagli autobus rossi a due piani per turisti. Ci salutiamo calorosamente, si scusa del ritardo. Entro in macchina, e mentre lui si dirige verso Little Italy, mi guardo con sorpresa attorno. Mi piacciono molto queste case con le scale d’emergenza esterne come nel film “C’era una volta in America” e poi subito dopo i grattacieli enormi, le insegne: l’occhio percepisce il passaggio da uno stile all’altro con molta naturalezza. Tanta gente mangia in strada, sembrano tranquilli anche se a passo veloce.
Ci sono le insegne della metropolitana: gente che entra ed esce. E’ settembre, gli alberi da lontano, siamo vicino a Washington square mi dice lo zio, hanno i colori delle cartoline, dal marrone ambrato al giallo. Di certo due settimane non saranno poi così lunghe da passare, darò una mano al ristorante e potrò visitare la città e i musei. Mi sarebbe piaciuto poter pianificare in modo diverso ma spesso le cose accadono senza che possiamo farci niente e io, per adesso, seguo la corrente. Ci mettiamo un po’ ad arrivare: siamo a Manhattan, quest’isolotto stracolmo di grattacieli che straluccicano sull’acqua. Il traffico è piuttosto scorrevole anche se, credo, per via delle scorciatoie dello zio, che è un abile guidatore. Arriviamo, lo zio posteggia dentro il cortile della pizzeria-ristorante. Non posso credere di essere qui: tutto troppo veloce, il biglietto, la partenza, il compito particolare che mi è stato affidato. I cugini americani che non conosco, mi vengono incontro contenti. Lo sono anch’io. La cena è un turbinio di baci, abbracci, calorosi pizzicotti alle guance. Ci sono proprio tutti: la zia Titina e famiglia, Maria e sua sorella, lo zio Turi, i sorridenti cugini. Lei però non c’è. Sono anni che non la vedo; prima veniva più spesso a Palermo a trovarci, dormivamo insieme. Ma dura solo un attimo e mentre sono ancora avvolta dagli abbracci dei parenti, ecco che lei entra imponente nella sua figura. È più magra e più bassa di come la ricordavo, i capelli bianchi col tuppo dietro, gli occhiali, il vestito nero, maestosa come una madonna boteriana: è la nonna Mariuccia! - figghia mia, sempri pallida sei! - e mi si avventa addosso. Riconosco subito il suo odore di sapone buono e borotalco. Mi si stringe il cuore.E’questo dunque il motivo del mio viaggio: riportarla a casa, vuole rivedere gli altri figli, è anziana, ultraottantenne dice che“l’ ossa riposanu na terra che canusciunu”. Tra due settimane ci saranno ad attenderla i suoi due figli minori. La tavola imbandita-dicono loro- con poche cose, comprende un menù che va dalla caponata alla pasta con le sarde passando per salsicce e involtini alla palermitana. E ovviamente dopo c’è il cannolo. Amen. Mentre ceniamo, si parla un dialetto anni cinquanta: tanti termini mi sfuggono e i cugini, forse credono che questo sia italiano. Non sempre li capisco anche perché muoio dal sonno: per me sono le tre di notte mentre mi stanno ancora raccontando tutta la storia della famiglia a partire dagli avi più lontani. Ho le vertigini e le loro fisionomie a tratti si allungano come in un quadro espressionista. Alla fine mi lasciano andare: sto per crollare sul tavolo. Il giorno dopo sono già all’opera per mettere alla prova il mio inglese. Di pomeriggio andrò al MOMA e poi al Gugghenheim perché amo moltissimo i musei. Ho già la cartina con le fermate della metro. Intanto mi guardo attorno, esco in strada a guardare la vecchia insegna del ristorante: Florio’s. Ormai Little Italy è solo una strada, con un’ insegna al suo ingresso. I vecchi negozi si contendono la via con i nuovi di stampo asiatico; ci sono le bandierine colorate, le verande con i tavoli apparecchiati fuori. All’angolo c’è una salumeria con i prosciutti appesi: un cartello avverte che si vende pane italiano. Mi incammino per la strada, i menù dei ristoranti sono esposti fuori, il sole è tiepido e li accarezza dolcemente. Finita la colazione già qualcuno comincia a cucinare per il pranzo. Un pezzo di meridione aggrappato forte alle tradizioni, che cerca di resistere all’avanzata globalizzante del nulla. Qualcuno sta cucinando il ragù con i semi di finocchio e l’estratto di pomodoro sfumato con il vino: più che una piccola Italia mi pare una piccola Sicilia. Qualcuno mi saluta, attacca discorso. “Sì, sono la nipote”, non gli sembra vero che si parli italiano e non il solito misto dialetto slang. E’ un uomo sessantenne con in fondo agli occhi tutta la tristezza del mondo. Di certo un mondo perduto. Dice che altre Little Italy sono nate in altri quartieri, che ormai gli italiani sono rimasti in pochi, che vorrebbe tornare ma non sa bene né dove né quando. Vorrei dirgli che in Italia abbiamo tanti problemi, che se tornasse resterebbe deluso. Ma non oso, mentre mi racconta di come si rimanga sospesi nel limbo: metà italiani e metà americani. In nessun luogo per intero. Una patria sospesa nel desiderio. Mi si apre uno squarcio nell’animo, ad un tratto capisco la felicità incompiuta, la nostalgia celata, certi silenzi per le feste comandate, il pesante fardello del’assenza. E io che pensavo che sarei morta… E invece mi risveglio così viva in un surrogato di Sicilia a sei mila Km da casa. Forse ho fatto proprio bene a venire. Ma unni finiu? - sento il vocione della nonna in lontananza - sì, chidda è me niputi - dice contenta, indicandomi ad un anziano che le si avvicina. “E ora - aggiunge trionfante - turnamu assemi in Sicilia! .Maria Luisa Florio
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