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Tema: Middlesex, il secondo romanzo di Jeffrey Eugenides

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SvolgimentoTema: Middlesex, il secondo romanzo di Jeffrey EugenidesGli avrò rivolto la parola una o due volte senza sembrare un demente. Quando mi ascoltava, durante l’intervallo o mentre raccoglieva frettolosamente le carte sopra la cattedra per andare via, aveva un modo estremamente fascinoso di lisciarsi quei quattro capelli che gli erano rimasti sulla nuca, un po’ sbiaditi sul giallino. Doveva essere un uomo tanto stanco, con gli occhietti incavati e increspati da tantissime venuzze che supplicavano riposo. Al mattino mi pareva un Picasso: un’accozzaglia di forme, odori e umori messi lì a darmi serenità. Capitava spesso di sentirmi perseguitato da quel suo odore di trinciato e deodorante, così ne seguiva che il suo nome mi pizzicava sul cervello e poi sulla lingua, ché avevo voglia di pronunciarlo, di destrutturarlo, di possederlo tutto. E partiva la fantasia. La fantasia di stargli sopra nudo, quella di baciarlo e di leccargli la lingua che sa di Merit, quella di mordergli i capezzoli che non gli ho mai visto mentre lo sento dentro. Sono anche andato a trovarlo a casa sua una volta, d’estate, per restituirgli un libro che mi aveva prestato. Ero sicuro di poterlo conquistare: mi feci offrire un tè, iniziai a scorrere col dito i tomi della sua libreria e iniziammo a parlare di letteratura americana, quella postmoderna.Aprivo e chiudevo davanti i suoi occhi la prima edizione in lingua inglese del secondo romanzo di Jeffrey Eugenides che in Italia non era ancora stato tradotto. In Middlesex, gli dicevo, questa ragazza scopre poi di essere una specie di ermafrodito. Esistono, ci sono dei casi documentati. Lui mi guardava con aria d’insufficienza, come si guarda un demente, abbassava gli occhi e continuava a fumare. Inutile dire che con l’università misi da parte la letteratura americana. Ci vuole troppo impegno, i romanzi sono un sacco lunghi e il libro di Analisi Matematica I, che ho studiato ben sei volte, mi bastava. Nonostante tutto ho avuto il coraggio di scrivergli ogni tanto: “saluti da Bergen” e in allegato un paesaggio, “come va il lavoro?”, “la Lola ha partorito?”, “auguri!”. Mi rispose una sola volta chiedendomi com’era la facoltà, se mi piaceva, come stava mia madre e basta. Adesso è un po’ che non lo sento. Non ricordo neanche il colore dei suoi occhi o il motivetto della camicia che indossava quasi tutti i lunedì ma sono sicuro che se dovessi stilare una classifica, ora che sono sposato, potrei tranquillamente affermare che lui è la seconda persona che ho amato di più in tutta la mia vita.

Giovanni Alberto Arena



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