A Caturnia il mio paese natio lo ricordavano così. Appariva in paese il primo di ottobre di ogni anno, e andava via il primo di gennaio.
Il profumo intenso di caldarroste avvolgeva il paese per ben tre mesi. Ah già dimenticavo! Ugo vendeva caldarroste. Questo tutto i santi giorni. Nebbia, pioggia, grandine, vento, gelo, neve...lui era lì. Implacabile. Avvolto in quel cappottone nero stile seconda guerra mondiale o anche di successione, in verità non si capiva lo stile originario. Si metteva comodamente seduto. su di una sedia di paglia, nella sua catapecchia di legno e cartone, ed ai suoi piedi il suo fedele compagno peloso. Brina. Ugo era parte integrante del paese dalla notte dei secoli. Il più anziano dei paesani lo ricordavo così. Una statua vivente, un addobbo natalizio, una luminaria, un alberello di natale che si piazzava per tre mesi l’anno sempre nello stesso angolo, sempre con lo stesso cappotto e con il suo fidato meticcio Brina. Un uomo e un cane senza età. Residenti a Caturnia da moltissimo tempo. Tantissimo tempo! Da quando ero piccolo lo ricordavo così. Con i suoi lunghi capelli bianchi curati e raccolti in un codino. La barba bianca non foltissima ma dall’apparenza mefistofelica, e poi i suoi bianchi splendenti denti nonostante l’età. Già vero l’età...quale età!? In paese tutti lo conoscevano da sempre. La cosa che mi mandava fuori di testa era che quando provavo a chiedere a qualche anziano del paese di Ugo, le loro risposte erano sempre vaghe ”Chi Ugo??? Ahhhh...il grande Ugo. Ma è qui da sempre!” queste erano le loro risposte. Io insistevo, ero curioso, non mi bastava.Gli sparavo una mitraglia di domande. Tutte le volte, pazientemente, si sforzavano di raccontarmi miseri falsi magici aneddoti. Questo solo per acquietarmi e farmi contento. Raccontavano che era comparso una notte dopo che avevano visto nel cielo mille stelle cadenti. Che si era palesato dopo una grande ubriacatura dell’intero paese. Che era apparso dopo che un fulmine aveva dato fuoco alla quercia più antica del paese. Io ascoltavo le loro storie per un po’. Poi mi stufavo e li prendevo a calci. Ero una capa tosta da piccolo, e non mi andava che mi prendessero in giro. Volevo sapere!...Chi era Ugo???
Per i paesani Ugo era un santo, un guaritore, un filosofo, un poeta, un farmacista, un fiscalista...tranne che un caldarrostaio. Sapeva tutto e di tutti ed a ognuno dispensava sempre buoni consigli. Erano sempre consigli che risolvevano guai o situazioni sgradevoli. Metteva pace a chiunque, ovunque e comunque. A tutti...buoni o cattivi. Nessuno escluso. Insomma per tre mesi l’anno Caturnia diventava un posto paradisiaco. Si viveva felici ed allegri. Mai un litigio, mai un brutto accadimento. Nulla di nulla. Si diffondeva nell’aria una gioia palpabile. Un vero miracolo. Ugo da quando ricordo mi ha sempre chiamato Piccolo. Mai con il mio vero nome. Non glielo mai sentito pronunciare. Il bello che continuava ancora a farlo alla mia veneranda età di 45 anni.“Uelà Piccolo...tutto bene oggi?...il babbo? la mamma?...” questo era il suo garbato saluto di tutti i giorni, ogni qualvolta passavo davanti il suo profumato affumicato gazebo. Se passavo dodici volte, lui dodici volte mi salutava così. Non gli sfuggivo. Delle volte provavo a fregarlo strisciando come una biscia sotto il tabernacolo, mi vedeva sempre...”Piccolo che hai perso? Perché strisci come un serpente?...tutto bene oggi?” gli avrei dato fuoco come un bonzo!
Ugo non era di tante parole. Anzi parlava pochissimo ma a volte sembrava che facesse dei lunghi discorsi per poi accorgerti che non aveva proferito parola...e rimanevi incantato a guardarlo.Occhi ipnotici. Grigi profondi. Ti ci perdevi dentro. Il volto segnato da rughe profonde come canyon. Delle volte guardarlo in viso sembrava vedere una cartina dell’Aci. Poi le sue mani nodose come rami di quercia, erano impressionanti, possenti! Poi quel magico sorriso che ti levava il fiato, con i suoi denti bianchissimi...splendenti.
Questo era Ugo il caldarrostaio. Il suo fedele cane poi era mitico. Si chiamava Brina. Un meticcio spelacchiato tutto nero con dai strani baffi lunghissimi sul suo muso corto e con dei grandi occhi nero pece. Smilzo, con una coda lunga e spelacchiata schizzoide e ipervivace, per farlo stare fermo dovevi solo sparargli! Con noi ragazzi si divertiva da pazzi. Nelle fredde giornate invernali, quando cadevano i primi fiocchi, scavava delle buche profondissime nella neve fresca dove andava a nasconderci di tutto. Il bello veniva quando in primavera con i primi raggi tiepidi del sole si scioglievano i cumuli di neve. Veniva fuori ogni ben di dio! Tutto quello dato per disperso da paesani disperati ,oramai rassegnati da vane ricerche, balzava con gioia ai nostri occhi! Se li aveva fregati quella carogna di Brina. Veniva alla luce di tutto. Sciarpe, guanti, pantofole, babbucce di lana, vecchi capelli, palle di natale, scarponi da sci. Una montagna di roba trafugata, finalmente ritornava in vita. Brina rispondeva al suo padrone con un solo fischio. Era fantastico vederlo fare ogni cosa gli chiedesse Ugo. Tutto questo senza che Ugo emettesse parola o suono. Pura magia. Lui capiva ed ubbidiva come un vero soldatino. La cosa era talmente magica che io da bimbo curioso continuavo a farmi un fiume di domande, ogni volta che Ugo appariva in paese. Perchè proprio di apparizione dovrei parlare. Il primo di ottobre aprivo gli occhi mi fiondavo alla finestra della mia cameretta, è lui era lì. Al suo angolo, con il suo cappottone nero, nella sua catapecchia e con il fido Brina scodinzolante. Tutti gli anni. La cosa grandiosa che nessuno del paese sapesse da dove veniva, e poi dove caspiterina ritornasse. Mistero assoluto! Lui per tre mesi l’anno era lì, al suo angolo. Quando poi calava la sera e tutti i paesani ritornavano al caldo nelle loro case, Ugo rimaneva ancora nella sua catapecchia. Dalla mia finestra lo spiavo avvolto nelle spire del fumo delle sue amate caldarroste. Aspettavo, paziente, che andasse via. Tante volte ho pensato di seguirlo. Andavo a fare un secondo la pipì, dico un secondo, ritornavo con il naso appiccicato alla finestra, e non c’era più! Porca miseria mi dicevo dandomi i pugni in testa! Una volta mi misi d’impegno, mi alzai dal letto zitto zitto, aspettai silenzioso che i miei dormissero profondamente. Spostai la sedia poggiata al muro e mi piazzai davanti la finestra con la coperta tirata dal letto indosso. Ero deciso a passare la notte con la fronte spiaccicata sul vetro gelido della mia finestra, così da tenermi sveglio. Lui era lì. Immobile. Avvolto nel suo cappottone nero con i baveri alzati per ripararsi dal vento gelido. Le folate di fumo che provenivano dal braciere della caldarroste, davano alla scena un che d’infernale. Da lontano mi sembrava Belzebù con luciferino con la coda scodinzolante al suo fianco...la mia fantasia da giovincello galoppava veloce. Io con gli occhi fissi su di lui con il vetro che si appannava per colpa del mio alito, ma lo tenevo d’occhio. Stavolta non mi avrebbe fregato! Niente da fare. Mi prese il sonno per due minuti. Ma che dico, molto ma molto di meno, apro gli occhi e non c’è più. Porca di quella zozza! Il giorno dopo mi aspettava beffardo ma gioviale come sempre...”Uelà Piccolo...dormito poco stanotte? Hai un faccino! Prenditi due castagne!... “ dio come lo odiavo. Poi col tempo ho imparato ad amarlo. Mi rassegnai e smisi di spiarlo, come probabilmente tutti gli abitanti di Caturnia. Ugo era Ugo, punto e basta. Imparai ad amarlo e rispettarlo. Passarono tanti anni. Divenni uomo. Ugo il primo di ogni ottobre appariva nel suo solito angolo, con il suo solito sacco delle sue amate castagne, avvolto nel suo solito cappottone nero, con lo scodinzolante fedele Brina al suo fianco. Uscendo per il lavoro Ugo mi aspettava e mi parlava tutte le mattine con il suo non parlare. Mi guardava, mi sorrideva e mi faceva dei lunghi discorsi...muti. “Ciao Ugo tutto bene stamane?...dio che freddo che fà!” sfregandomi le mani infilate nei caldi guanti imbottiti di camoscio. Ugo come sempre a mani nude voltava le sue caldarroste...”Ugo tu invece? saldo come una roccia vero?”...così lo salutavo tutti i giorni quando cominciavo il mio solito giro dai clienti. Lui gentilmente mi offriva sempre un cartoccio di caldarroste caldissime, arroventate. Sorridendomi con i suoi bianchissimi denti. La goduria era infilarsi il cartoccio tra le gambe quando mi accomodavo sul sedile dell’auto gelida. Ahhhh che meraviglia. Era il mio risveglio erotico della giornata. Pensavo alla calda mano di Rosa che pochi minuti prima mi aveva toccato nel letto prima di uscire. Grande Ugo. Il mio cartoccio erotico quotidiano. Il mio viagra sotto forma di castagne. Son più che certo che Ugo sapesse a cosa serviva il suo cartoccio mattutino. Pensando al suo sorriso cominciavo alla grande la mia giornata. Grande Ugo. Fatto sta, sarà stata la cura castagnosa di Ugo, Rosa una mattina di febbraio mi prese per mano e mi disse che aspettavamo un bambino. Il mio cuore esplose in petto, dio mio mi girò talmente la testa che mi sentivo meno. Dio mio pensai...diventerò padre! Caspiterina! Poi svenni davvero. Fu una bella primavera, ricca di preparativi che fece poi seguito ad un estate felice e spensierata in attesa del grande evento. Guarda caso Rosa avrebbe sfornato il Piccolo i primi di ottobre, sarebbe nato un bel bimbo. Un altro Piccolo. Pensai a come mi chiamava da sempre Ugo. Mi sarebbe davvero piaciuto avere l’onore di presentare il nuovo Piccolo al grande Ugo. Gli ultimi giorni di settembre andai in ansia ...l’attesa era snervante, spasmodica...e poi attendevo l’apparizione di Ugo. La notte del 30 settembre eravamo tutti in ospedale. Il Piccolo stava per nascere. Venne alla luce un minuto dopo la mezzanotte. Fu meraviglioso. Il Piccolo era bellissimo. Nell’aria incredibilmente avvertivo un fortissimo profumo di caldarroste. Che strano. Il tempo di sistemare il tutto e corsi a Caturnia. Trovai l’intero paese per strada. Gli andai incontro sorridendo, gioioso, pronto a ringraziare tutti per la loro attenzione. Ma invece constatai che nessuno mi sorrideva. Anzi c’erano dei musi lunghissimi, un’aria triste, funerea. Nell’aria nessun profumo di caldarroste. Né Ugo né Brina erano al loro angolo. Mi assalì un profondo sconforto. Il mio cuore si divise a metà. La gioia della nascita, l’amarezza della scomparsa....una sensazione stranissima. Non fu un bel periodo per Caturnia. I paesani divennero scontrosi. Vennero fuori vecchie ruggini. Questione non risolte. Seguì poi un mesto Natale. Il Piccolo però ci riempiva la vita. Cresceva meravigliosamente. L’inverno passò. Di Ugo non si ebbe più notizia, ed il paese se pur sconfortato pian piano dimenticò. Io non avrei mai potuto. Quando passeggiavo con Rosa e il Piccolo spesso mi soffermavo all’angolo di Ugo. Mi piaceva a toccare quelle pietre. Sentire il profumo di fumo sulle dita. Sentivo l’odore di Ugo. Il mio cuore si riempiva di lacrime e dolore per la sua dipartita. Poi guardavo il Piccolo e sorridevo contento. Vita mia. Passò anche l’estate. Questa volta i preparativi sarebbero stati per il primo anno di vita del Piccolo. Bisognava festeggiare alla grande. Il primo ottobre sarebbe stato il suo primo compleanno. Come può essere crudele la vita. Sarebbe stato fantastico festeggiare per sempre il compleanno del Piccolo e l’avvento di Ugo. Per la prima volta nella mia vita mi balzò in testa quella parola. L’avvento. Davvero era stato così per tutti quegli anni per l’intero paese. I giorni dell’avvento, del grande Ugo. Ricordo bene quella mattina del primo ottobre. Il cielo era azzurrissimo. L’aria fresca di fine estate. La gioia palpabile. Ma c’era qualcosa altro nell’aria... un buon profumo. Dio mio Ugo! Mi precipitai alla finestra. La spalancai di colpo. “Ugoooooo” gridai a squarciagola. Lui mi guardò da suo tabernacolo e mi sorrise con i suoi denti bianchissimi. Presi il Piccolo dalla culla. Lo avvolsi in una coperta. Guardai Rosa per un attimo, in attesa di una sua autorizzazione che non tardò a venire. Lei, senza dir nulla, con lo sguardo mi disse...vai. Corsi veloce per strada. Brina mi saltellava vicino impazzito di gioia. Faceva dei balzi altissimi, pareva volasse. Ugo si sollevò dalla sedia. Credo che fu la prima volta che lo vidi fare quel gesto. Gesù, davvero!...L’avevo sempre visto seduto. Da sempre. Ugo spalancò le braccia e gli porsi delicatamente il Piccolo. Lo guardò intensamente e penso che, ridendo, dicesse queste parole. Dico penso perché non vidi assolutamente muovere le sue labbra. Mentre gl’infilava un pezzettino di castagna nella sua boccuccia, sentii la sua voce giuliva d’antico vecchio nella mia mente. ” Ehi bimbo, il tuo bisnonno, quando lo presi tra le braccia, mi toccò la barba e pianse...ahahahahaha... ...buona vita Piccolo mio!” abbracciandolo come un soffio, lo baciò.Roberto Testa