1.
Bosnia Erzegovina, 1995
Rumori, dal fitto della boscaglia. Samira volge di scatto gli occhi al suo compagno, nel suo sguardo c’è una richiesta di aiuto. Lei e Sefer sono le staffette avanzate della banda di irregolari che ha osato sfidare il temibile esercito serbo. Una follia, l’aveva detto dal primo momento. Trenta soldati improvvisati, male armati, contro un intero reggimento attestato a difesa. Un attacco suicida. Li hanno fatti a pezzi, sono rimasti in sette. Due di loro sono feriti, Ismet non arriverà alla notte. La sera allunga la sua ombra nel cielo e col buio aumenterà la paura. Quella che già adesso le attanaglia la gola. Samira sente il pericolo nel fruscio sottile delle foglie. Sarebbe bello che a muoverle fosse il vento del Nord, anche se tante volte lo ha maledetto, quando all’alba usciva di casa e la sua sferza impetuosa le gelava il sangue. Sarebbe bello se tornasse quel tempo, quando la vita era lavoro duro, la mattina a scuola e il pomeriggio ad aiutare la mamma nelle faccende di casa. Ma Samira una casa non ce l’ha più. L’ha barattata con un fucile e due scarponi incrostati di fango, per un uomo che l’ha trascinata in una lotta disperata, a perseguire un obiettivo privo di senso. Non ci saranno vincitori, alla fine di quel dolore avranno perso tutti. I pochi che scamperanno alla mitraglia, ai cecchini, alle mine disseminate nei campi, riceveranno in premio un paese dilaniato, dove nulla sarà più come prima. Croati, serbi, bosniaci musulmani, quando il massacro si sarà fermato resteranno nemici. La guerra non finirà nei pensieri della gente, nelle anime ferite. Prima erano tutti mescolati: in seno ai villaggi, alle famiglie formate senza badare troppo alle origini. Era il komšiluk, il codice non scritto della reciproca tolleranza. Dopo, sarà tutto un guardarsi con rancore. «Il tuo esercito bastardo ha ucciso mia madre». «Brutta puttana, cosa vuoi? Sono stati i tuoi a incominciare». Saranno questi i discorsi fra chi si era giurato eterno amore, se qualcuno avrà ancora voglia di parlare. Ma Samira non vedrà tutto questo, perché nel bosco avanza la milizia del colonnello Dragojevic, il macellaio venuto da Gračanica. L’uomo che conduce la pulizia etnica in quell’angolo di Bosnia. Non avrebbero dovuto affrontarlo, sono condannati, nessuno di loro sfuggirà a quegli uomini addestrati a scovare i nemici nel cuore della foresta. Li sente più vicini, adesso, tanto da fiutarne l’odore. Per Sefer è lo stesso, glielo legge negli occhi. «Cosa facciamo?» chiede.
«Non parlare, potrebbero sentirci». Il suo compagno ha ragione. Hanno bisbigliato, ma nel silenzio di un bosco fa rumore anche il respiro. Samira però non sa tacere. «Non vedo più gli altri. Forse dovremmo…».«Tornare indietro? Fallo tu se vuoi. Io non muovo più un passo».
Sefer scuote la testa, è fuori di sé. Nello scontro appena combattuto è caduto l’ultimo dei suoi fratelli. Il grosso della famiglia si era dissolto nell’attacco al villaggio, ingoiato da una fossa comune. Samira non riuscirà a calmarlo e lo sa, ma deve provarci. «Cosa vuoi fare, aspettarli? Pensi che quell’albero ti riparerà dai loro proiettili?». Ha alzato appena il tono di voce. Basta quel tanto e il residuo equilibrio del suo compagno va a perdersi chissà dove. Il ragazzo cresciuto in una storia più grande di lui si lancia nel fitto della boscaglia senza pensare a niente. Prima della guerra tagliava la legna, come suo padre e suo nonno. Era in gamba, con un colpo di scure buttava giù un piccolo fusto. La sua abilità non gli servirà a strappare alla morte un solo minuto. Samira lo vede sparire fra gli alberi, una corsa disperata che porterà solo a farli scoprire, ma tanto la loro fuga non sarebbe durata. Anche senza sentire i colpi lei sa che il suo Sefer, che in una sera lontana le rubò il primo bacio e sparì per lasciare il posto a un nuovo amore, se n’è andato per sempre. È in un altrove sconosciuto, dove forse non ci sono i fucili. Magari avrà raggiunto i suoi genitori, le sorelle di cui era così geloso. Che la sua anima trovi pace, pensa la donna mentre l’incubo della guerra si avvicina di nuovo. È tanfo di sudore, odore di polvere da sparo, è clangore di metallo. «Getta le armi, sei circondata!».D’istinto compie il gesto contrario. Arma l’otturatore e si accuccia, pronta ad aprire il fuoco per l’ultima volta. La voce dell’uomo si fa più dura. «Non ci provare. Sei sola, i tuoi compagni li abbiamo già presi». I soliti espedienti. È una gara di nervi, sanno che è stanca e disperata. Stanno bluffando per metterle paura. Oppure no. «Avanti, Samira, vieni fuori. È sciocco morire così». Non è un trucco. L’hanno chiamata per nome, segno che qualcuno ha parlato. È vero, gli altri sono stati catturati, hanno già iniziato a torturarli. Toccherà pure a lei e non ha senso arrendersi, meglio morire subito con un’arma in mano. Ma ventinove anni di vita gridano altro. Le urlano di aggrapparsi a una labile illusione di sopravvivenza. Alla sua età si spera sempre che ci sia un domani, che sia migliore. Samira getta il fucile. Forse pensa ai bambini che ha affidato ai nonni prima di abbracciare la guerriglia, forse vuol solo vivere un attimo in più. Il colonnello Dragojevic sorride, un ghigno beffardo che mette i brividi. «Sei bella, donna musulmana. Me l’avevano detto, ma non credevo lo fossi fino a questo punto. Oggi è stata una buona giornata». La spingono a piedi lungo il sentiero nella boscaglia, poi a forza su una camionetta. Un percorso a ritroso che la riporta all’accampamento serbo preso d’assalto dal suo gruppo. È come le hanno detto, i suoi compagni sono tutti prigionieri. Mancano Ismet e Sefer, non è difficile capire perché. L’ufficiale sparisce dietro la tenda più grande, dev’essere il suo quartier generale. Ora a occuparsi di lei è un giovane senza insegne sulla divisa. È il capitano Paskaljevic, il braccio destro del colonnello, ma non spreca il fiato a presentarsi. Un istante più tardi Samira si ritrova nel gruppo dei suoi. «Ti hanno fatto del male?». La voce del compagno è impastata di terrore. Era il leader di quel manipolo improvvisato, ora è solo un giovane uomo tremante. Forse avrebbe diritto a un’altra possibilità, ma il destino se ne frega e gli lascia al più qualche ora. Anche lui ha figli, sta pensando a loro. La moglie è morta a Sarajevo nel massacro del mercato, era andata in città a trovare i genitori. Doveva restarci una settimana, poi è iniziato l’assedio ed è rimasta intrappolata in quella immensa gabbia di fuoco e metallo, che alla fine l’ha uccisa.Samira non risponde alla domanda. Sta osservando l’ufficiale serbo che, fermo a qualche metro, impartisce ordini ai suoi uomini con un’espressione feroce sul volto.
«Tramano qualcosa» dice al suo capo, che si volta a fissarla. Nell’occhiata che si scambiano ci sono impotenza, dolore, inutile affetto. Poi qualcuno li afferra e li trascina in una radura vicina, verso un poligono di tiro improvvisato. Sullo sfondo non ci sono sagome e quello non è certo il momento di addestrarsi. È fin troppo chiaro, il bersaglio saranno loro. Dalla fila dei prigionieri si leva un bisbigliare sommesso. Samira non partecipa, ha la gola secca. Si concentra sui figli, vuol morire con quella immagine impressa nel cuore. Pensando a loro nell’ultimo istante, s’illude, potrà trovarli più facilmente quando tutti saranno dall’altra parte. Ammesso che sia vero, che l’aldilà non sia un abbaglio per imam e sacerdoti. Un bel pretesto per combattere, la religione, funziona da secoli. Scannarsi senza tregua in nome di una fede. Pensa che beffa se Dio si è stancato di governare un mondo tanto assurdo e si è trasferito altrove. Dalle file dei serbi risate di scherno. «Preparatevi a morire» dice una voce dal mucchio. Il capitano Paskaljevic lascia fare per un po’. Ascolta i commenti dei suoi con un mezzo sorriso sulle labbra, poi decide che ne hanno avuto abbastanza. Si mette dietro la fila e, battendo un frustino, scandisce comandi secchi a cui i soldati rispondono con precisione. È la fine, ancora qualche secondo e Samira sarà cibo per vermi. Terra alla terra, chissà se i carnefici si prenderanno la briga di seppellirli. «Plotone, caricate!».La ragazza sente tirare indietro gli otturatori, riempirsi le canne dei fucili. È l’ultimo atto, quei proiettili usciranno per conficcarsi nei loro corpi e poi sarà notte per sempre. Il soldato che ha di fronte la guarda con aria triste, le mani contratte sulla sua arma. È giovane, è la prima volta che partecipa a un’esecuzione. Neanche per lui quello sarà un bel giorno. Fra le labbra una muta preghiera. Dio non esiste, non è possibile che stia lì a osservare un simile scempio senza far nulla, eppure bisogna implorarlo. Se si è addormentato un urlo profondo, dall’anima, potrebbe scuoterlo dal suo torpore. Ma anche l’anima tace. In quel giorno che sa di pioggia e di morte, a gridare sono solo i carnefici.
«Mirate!». I soldati sollevano i Kalashnikov ad altezza d’uomo. Dalla fila dei condannati un fruscio, uno dei compagni si sta pisciando addosso. Samira evita di guardarlo per risparmiargli un vano imbarazzo. La morte in faccia è una brutta bestia, difficile spiegarlo a chi non l’ha provato. Dai suoi ricordi della scuola riaffiora un dettaglio che credeva rimosso. Tolstoj o Dostoevskij, chi dei due affrontò il plotone di esecuzione e si salvò per un estremo atto di clemenza? Si sforza di rammentarlo. Era Dostoevskij, adesso ne è sicura, e intanto i proiettili non arrivano. Quei bastardi lo fanno apposta, la mandano alle lunghe per godersi la loro agonia. Invece no, la ragione è diversa. Dalla tenda si è affacciato il macellaio di Gračanica. L’attesa serviva a farlo assistere all’apice della sua vittoria. La fucilazione di cinque inermi, bella gloria. Ma chi crede che le guerre si vincano col valore è uno stolto, o uno che non le ha mai viste. Gli occhi di Samira vanno dal colonnello Dragojevic all’ufficiale che dirige il plotone d’esecuzione. Fra i due uomini passa un’occhiata, poi il capitano solleva il frustino.«Fuoco!». Chiude gli occhi. Come sarà, passare dalla luce al buio? Forse se non guarda non sentirà nulla. Chissà se gli altri stanno pensando la stessa cosa. Non li vede, può solo sentirli tremare, ma perché quei maledetti colpi non partono? Vorrebbe stare nel plotone per premere subito il grilletto, perché lo strazio abbia fine.Poi finalmente capisce. Invece degli spari alle sue orecchie arriva una risata sguaiata. Ne aveva sentito parlare, non credeva lo facessero davvero: le finte esecuzioni, una tortura disumana. Gli otturatori scattano a vuoto. Samira e i suoi compagni sono ancora vivi, eppure non appaiono sollevati. Le armi dei serbi si sono abbassate, ma loro restano in balìa dell’odio nemico. Si guardano, uno del gruppo sembra invecchiato di colpo. I suoi capelli si sono ingrigiti in pochi istanti, anche a vederlo non si riesce a crederlo. Il colonnello Dragojevic si avvicina. Aspetta, per parlare, di avere gli occhi di tutti fissi nei suoi, che girano da un prigioniero all’altro come il tamburo di un revolver nella roulette russa. «Vi starete chiedendo perché non vi abbiamo uccisi. Per voi abbiamo altri progetti, prima di andare all’inferno risponderete a molte domande. Oggi stesso sarete trasferiti al campo di concentramento di Omarska. Da quelle parti, dovete sapere, si ottengono risposte molto sincere». Dai ranghi dei suoi soldati si solleva un nuovo brusio di scherno. Dragojevic passa in rassegna gli sconfitti. Si ferma davanti a Samira, le sfiora i capelli.«Sei bella, te l’ho detto». Lei ha le mani legate. Vorrebbe colpirlo, può solo sputargli in pieno viso e non si lascia sfuggire l’occasione. Fra i suoi compagni scorre un brivido. Il colonnello estrae un fazzoletto dal taschino con incredibile lentezza, si asciuga il volto. Guarda la donna, poi con un gesto chiama a sé l’uomo dal frustino. «Quella puledra ha bisogno di essere domata. Riservale il solito trattamento, ma senza sciuparla troppo. Dopo cena la voglio nella mia tenda».Il capitano Paskaljevic le si para davanti. Senza dire una parola la afferra per i capelli e la scaraventa per terra in mezzo a un gruppo di soldati. Lei prova a rialzarsi, una pedata la rispedisce al tappeto. È un pestaggio scientifico, stanno attenti a non lasciarle segni. Dopo i primi colpi Samira si abbandona al dolore, sperando di perdere i sensi. E finalmente la terra comincia a girare.Si risveglia nella penombra di una tenda. È sola, il macellaio sarà intento a pianificare i prossimi massacri o si starà imbottendo di birra assieme alle sue belve. La donna non può muoversi, è bloccata. Sente dolore dappertutto ma non perde sangue, se ha ferite devono avergliele pulite. Non sa quanto tempo sia passato. Poi lui arriva. Arriva col suo tanfo di alcol, la sua voce impastata. «Dov’è la mia cagna?». La cerca con lo sguardo, le sue mani impazienti slacciano già i pantaloni. «Ora ti do una bella ripassata». Non può neppure urlare, le hanno messo un bavaglio. Non ha nessuna possibilità di fermarlo. Lo sente entrare in sé e giura che, se mai ne uscirà viva, gli farà scontare ogni singolo assalto, ogni singolo gemito. Lui si muove da ubriaco. Nelle sue condizioni non prova un vero piacere sessuale, è il delirio di onnipotenza a portarlo a quell’urlo bestiale. Dopo l’orgasmo la sua furia si placa di colpo. Le crolla addosso, piombando all’istante in un sonno profondo. Riapre gli occhi molte ore più tardi. «Come va?». Le si siede accanto. Adesso ha voglia di parlare, come se quell’amplesso strappato a forza in qualche modo li avesse uniti. «Credi che io sia una bestia? Il macellaio, non è così che mi chiamate?». Fa una pausa. «Ti spiego chi sono».È una storia crudele di miseria e violenza, che lei non ascolta. Sembra parlare a se stesso mentre le sfila il bavaglio perché possa rispondergli. «Hai capito adesso, puttana bosniaca?». Alterna la rabbia a una feroce disperazione che assomiglia al rimorso. «Scusami, non volevo offenderti, forse un giorno sarai la madre di mio figlio». Per un attimo sembra crederci sul serio, le tocca la pancia. «Sì, avrò una famiglia. Non andrai a Omarska con gli altri, non lascerò che ti uccidano». Sorride. «Se nasce un maschio lo chiamerò Radovan. È il nome di mio padre, un grande combattente». Il suo delirio tocca il culmine. «Nostro figlio sarà fiero del suo nome». Samira è sconvolta. Si guardano per un lungo istante, poi lei ha un lampo negli occhi. «Ho due figli e mi bastano. Se mi hai messa incinta lo ammazzo con le mie mani, il tuo bastardo». Lui muta di nuovo espressione. Senza dire una parola estrae la sua Zastava semiautomatica dalla fondina e le spara in testa. Un colpo solo: lo ha fatto altre volte, non ne servono di più. Un fiotto di sangue schizza dalla tempia colpita. L’ufficiale fa in tempo a scansarsi per non esserne raggiunto, osserva il liquido rosso colare sul pavimento con disgustata freddezza, evitando con lo sguardo quel corpo senza vita. Si affaccia sulla porta. «Qualcuno venga a pulire questo schifo» urla, poi raggiunge la scrivania e riprende a consultare le sue carte.
Dedica per la Maestra
Ci sono libri che si scrivono con la vita. “Venga pure la fine” è uno di quelli, è nato mentre i miei anfibi si sporcavano di polvere a Sarajevo e la mia anima di dolore. Neppure sognavo, allora, di diventare scrittore.
Lo dedico alla Maestra, che vive e scrive giorni e pagine, e ai suoi Allievi, che amano le storie come se fossero il lievito stesso dell’umana esistenza. Non credo si sbaglino di tanto.