Il giornalista Pablo Suero chiede a Indalecio Prieto il suo pronostico per le elezioni imminenti, quelle del febbraio del 1936. Il socialista, facendo sfoggio di una franchezza del tutto inusuale per i politici, risponde: "Non vorrei screditarmi in quanto profeta, ma non lo so (...) Non sono a contatto con la gente, dal momento che mi relaziono con poche persone, e queste persone, appartengono alla mia ideologia. Mi manca il senso di quello che si percepisce nella strada, quel quid indefinibile che ti permette di orientarti e di vaticinare". In quel momento, Prieto, ancora in clandestinità, ricercato per la sua partecipazione alla rivoluzione asturiana dell'ottobre 1934, criticava il programma repubblicano "così moderato e conservatore che in qualsiasi altro paese sarebbe un programma delle destre".
Pablo Suero era arrivato in Spagna nel 1935; aveva un passaporto argentino, ma era nato a Gijón, nelle Asturie. Figlio di una famiglia di emigranti, a Buenos Aires era ben presto diventato un personaggio. Reporter, critico letterario, drammaturgo e direttore di scena. Fra le altre cose, fu lui che notò una giovane attrice e la fece la lavorare nella sua compagnia teatrale. Si chiamava Eva, la ragazza, e non aveva ancora ricevuto il cognome da sposata che l'avrebbe resa celebre. Perón. Suero scrisse anche testi memorabili per il tango del suo amico Carlod Gardel. E fu sempre a Buenos Aires che conobbe Federico Garcia Lorca, di cui divenne amico e fu poi ospite nella sua casa, in Spagna. E Suero, a proposito delle elezioni, ricorderà le parole della madre di Lorca: "Se non vinciamo, possiamo dire addio alla Spagna. Ci strapperanno via, se non ci uccideranno, addirittura!".
Gli articoli di Suero vennero raccolti in un libro "España levanta el puño", la Spagna alza il pugno, che venne pubblicato nel 1937 in Argentina. Fra le altre cose, il giornalista traccia la sera del 16 febbraio del 1936, nella redazione del quotidiano "La Voz", dove si aspettano con ansia i risultati delle elezioni. Si chiede se, quella sera, qualcuno, fra tutti coloro lì riuniti, intuisse quello che stava per succedere. Non nasconde lo stupore per una simile cecità, soprattutto a partire dalla rilettura delle sue cronache precedenti a quella serata. E, soprattutto, a partire dalla conoscenza, a posteriori, di quello che sarebbe successo il 18 luglio del 1936.
Ma conviene rassegnarsi, ed ammettere che il giornalismo, anche il migliore, è così: scettico anche verso sé stesso, nonostante tutta la potenza metaforica degli aneddoti, si rivela assolutamente inutile, un profeta inetto, incapace com'è di offrire una bussola nel trambusto del presente. E, alla fine, forse, il giornalismo è destinato ad incontrare, solamente in mezzo agli acari della polvere che infestano le emeroteche, i suoi lettori più competenti, cui vaticinare con estrema precisione un tempo imperfetto.
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