Fabio Ciriachi, “Uomini che si voltano”, Coazinzola Press 2015
Di MARTA ALBA ANCONA
Fra le molte qualità di Uomini che si voltano (Coazinzola Press, 2015) di Fabio Ciriachi, merita che ci si soffermi soprattutto sulla sua particolare resa del tempo. Gli otto racconti del romanzo infatti – che ordinati cronologicamente dalla fine del 1969 ai primi del 2000, scandiscono la narrazione in altrettanti capitoli, dotati ciascuno di autonomia e di titolo propri – riescono ad avvicinare così tanto l’esperienza del tempo letto a quella del tempo vissuto, da renderne quasi gustabili i sapori e apprezzabili le diversità.
Questa coesistenza di tempi diversi, all’interno di un’unità narrativa franta dal continuo variare dei protagonismi, conferisce alla storia un’ampiezza inusitata; tale per cui non sorprende che il personaggio principale del romanzo, Diego, possa permettersi di apparire come anonimo io-narrante nel primo racconto “Un poeta all’inferno”, sparire nel secondo “Fiori di lupo” (di cui invece è deuteragonista Ivan, che poi sparisce per tornare da deuteragonista nel penultimo “Esercizi di osservazione”) e acquisire consistenza dal terzo al sesto racconto (“Diavola”, “Il Maestro e Silvia”, “Riflessi dalla camera vuota – Diario del 1990”, “Questa contagiosa storia”) fino a terminare il romanzo, dopo un’altra sparizione, come protagonista anonimo dell’allusivo “Chiudere il cerchio”. Che poi ogni volta, all’apparire di Ivan sparisca Diego la dice lunga sulla possibilità che questi due personaggi si costituiscano, anche, come anime distinte e contrapposte di una medesima identità.
Il frenetico alternarsi di presenza e assenza, col mutare continuo dei piani fra principali e secondari dà ulteriore efficacia al cambio di prospettive su cui poggia l’intera narrazione; oltre a rafforzarne la polifonia che, segnata com’è dallo scandirsi di silenzi e voci (sia dirette che indirette), finisce per esserne l’inevitabile risultante sonora.
Teatranti nel ’68, cani sciolti sul finire dei Settanta, operai negli Ottanta, scrittori senza libri nei Novanta, faccia a faccia con la morte a inizi Duemila, tanto incapaci di amore quanto bisognosi di qualcosa che ne faccia in modo parimenti esaustivo le veci, donne e uomini qui raccontati intrecciano le loro esistenze in un alternarsi di alti e bassi esistenziali dove non sono eluse morte e malattia, delusione e riuscita amara, apprendimento e non senso, figli e solitudine, memoria e perdita. Quasi fossero altrettante allegorie dello smacco storico di una generazione, i progetti genitoriali naufragano o sullo sfondo della tragedia di Vermicino (prima grande condivisione mediatica della realtà), o a seguito di un tradimento tanto miope quanto evitabile; e la crisi di una coppia si consuma al capezzale dell’uomo ridotto in stato vegetativo per un suicidio tentato e non riuscito, emblema del fallimento più estremo, da un lato, e dei danni che si provocano nelle vite altrui fuggendo in modo scomposto da se stessi, dall’altro.
Roma, oltre ad Arezzo e alla sua provincia in particolare, sono i luoghi lungo i quali il destino spinge questi esseri privi di tracce (sia da seguire che da lasciare), ma anche il Cilento, la Provenza, Santa Marinella e persino il Perigord di un Montaigne morente e sempre lucido; ed è in una geografia di leopardiana indifferenza che li fa incontrare e separare, li illude e li condanna affinché non ne risulti nessuna fine che sappia essere così stolta e ferma da meritarsi un’etichetta che la certifichi in modo certo. Anche nell’apparente, e spesso faticosa, riuscita individuale tutto rimane aperto dal lato di un esito intrinseco così potenzialmente vicino alla sconfitta da renderla, per paradosso, improbabile; sorta di esorcismo bifido che proprio mentre protegge, al tempo stesso espone, minaccia. Ma se nessuno qui arriva mai veramente a perdersi o a salvarsi, cosa ne è allora di quei destini così duramente raccontati? E cosa, di noi, che ne apprendiamo le vicende con un senso di scorata preveggenza, e attraverso i dubbi che ci suscitano siamo addirittura tentati di dubitare a nostra volta di noi?
Meno omogeneo di quanto non sembri ai precedenti romanzi sul passato (Soprassotto si concentra sui Settanta, L’eroe del giorno sul finire dei Cinquanta, Le condizioni della luce sugli Ottanta), protetto dalla tragica bellezza dell’omonimo quadro di Scipione e dal Montale di una poesia quasi omonima, Uomini che si voltano utilizza materiali scrittori nati per lo più nel corso degli anni narrati, e pur avendo lo sguardo rivolto all’indietro è un’opera saldamente ancorata al presente, sia a quello storico delle vicende raccontate, sia all’attuale di cui assume in filigrana la voce nonostante dia rilievo, di volta in volta, a quelle proprie di ogni periodo attraversato; voci limate, ciascuna, dalle circostanze che testimoniano e ad esse con pertinacia adattate. Perché, e forse va detto con chiarezza, proprio la differenza nel trattamento del tempo impone di considerare Uomini che si voltano non come l’elemento conclusivo di una possibile tetralogia ma piuttosto come la necessaria postilla di una trilogia non programmata e che si è scoperta tale solo a posteriori; anche se qui, comunque, bisognerebbe fare i conti con quanto ricorda Stefano Giovanardi ne La favola interrotta, ovvero che, per darsi, una trilogia «deve contenere un segnale di organicità, alcune inequivocabili stimmate di “tonalità”» segnale e stimmate sulla cui esistenza, nel caso di Ciriachi, bisognerebbe indagare con più attenzione prima di esprimere un parere.
Ma com’è trattato il tempo nei romanzi precedenti? L’Ivan di Soprassotto, che pure attraversa quarant’anni di storia (la vicenda inizia a gennaio del 2008 e si conclude a gennaio del ’68) si racconta, benché in un frammentato disordine cronologico, dalla prospettiva del suo solo punto di vista di io-narrante che cerca di trasmettere, a un giovane di oggi, il senso della sua esperienza in una comune agricola negli anni Settanta. Così come le vicende in terza persona del tredicenne Ivan Capacci de L’eroe del giorno vengono raccontate, fino al compimento dei suoi dolorosi sedici anni negli scontri di Porta San Paolo del 1960, senza mai distogliere l’attenzione da lui. Attenzione esclusiva riservata anche alla protagonista de Le condizioni della luce, Alda Siverio, che mentre fa i conti con la trentennale attività di fotografa attraverso una grande mostra antologica, sistema in un ordine accettabile la sua condizione di donna e di madre. Tempi singolari, dunque, tutti inerenti ogni volta al protagonista di turno e mossi solo a scandire l’andamento delle vicende che lo riguardano; e, in quanto tali, dotati di una certa linearità che non decade neanche quando l’ordine cronologico viene sovvertito.
In Uomini che si voltano, invece, i protagonisti cambiano spesso, e quando non cambia il protagonista (Diego lo è in modo esplicito dal terzo al sesto racconto) cambia il modo in cui viene raccontato, per cui si alternano prima e terza persona, fino all’uso della forma diaristica del quinto racconto, il più lungo e, si direbbe, il più fedele al vero; come si vede, un’eterogeneità temporale che è ben altro dai tempi singolari e omogenei dei precedenti lavori.
Quanto alla fedeltà al vero, appena accennata, urge una digressione al fine di chiarire. Di quale vero si parla? A ben vedere, in effetti, il problema neanche si pone in uno scrittore che scelga di attingere in modo diretto alle proprie esperienze, spogliate, però, di ogni intento biografico. Usare la materia del proprio vissuto per dare forma alla creatività: quale scrittore non segue questo principio? Che poi il creato somigli al vissuto (fattuale, intellettuale, emotivo) o se ne allontani in modo opposto attiene solo alle strategie narrative ed è del tutto secondario, perché anche la più determinata intenzione di riprodurre fedelmente il vero, qualora si fosse così ingenui da crederla una cosa realizzabile, sarebbe destinata a fallire per il potere enorme che ha la scrittura di far esistere solo ciò che nomina, e per ciò stesso di falsificare l’affollato plurale della realtà che ne esce ogni volta mutilata del gigantesco e preponderante non detto. Ma anche, per dirla con il Barthes de Il grado zero della scrittura, per il suo apparire «sempre simbolica, introversa, volta ostensibilmente dalla parte d’un versante segreto del linguaggio»; e in questo caso della «passione del linguaggio, come nella scrittura letteraria».
Ed è certo a una passione che si deve la grande cura riservata all’aspetto meta-letterario di questo insolito romanzo a racconti. Ma procediamo con ordine, per meglio dimostrarlo, e facciamo attenzione, visto che Ciriachi anziché ostentare le sue strategie, fa di tutto perché agiscano, invisibili, in modo subliminale (con ciò rischiando il fraintendimento di chi non le coglie). Riusciamo a dare un nome all’anonimo io-narrante del primo capitolo, padre di una neonata chiamata Serena, solo al terzo capitolo quando sappiamo che la figlia di Diego, Serena, va a Roma dalla madre. Bene. Nel quarto capitolo sappiamo che Diego, padre di Serena, col cuore a pezzi per la fine di una grande storia d’amore, preda di un corto circuito psico-politico, cerca di riciclarsi come capitale sociale di una SpA. Ricordiamolo questo dettaglio perché poi, a metà circa del quinto capitolo Diego, che nella finzione del 1990 si è ritirato in una casa tra le colline toscane per scrivere il suo primo romanzo, nel diario che tiene di quel soggiorno registra quanto segue: «Ho derogato alla promessa di non raccontare la trama del romanzo. Appena Zaira e Peppino me l’hanno chiesto, mi sono provato a darne una sintesi esauriente. Nel cercare di chiarirla a loro, sono riuscito a chiarirla anche a me. “Raggiunta l’età matura, un uomo dalle molte competenze e dalla totale incapacità di metterle a frutto, si vende come capitale sociale di una SpA i cui soci di maggioranza cominciano a gestirlo con risultati che gli renderebbero la vita impossibile se una donna – incaricata di ottimizzarne le competenze, e di cui il protagonista si innamora, ricambiato – non spargesse la notizia (falsa) di una sua grave malattia cosicché, svalutato, lo compra, lo sottrae ai piani criminosi dei vecchi proprietari e ne diventa, con grande soddisfazione reciproca, la legittima padrona”. La trama è piaciuta: strana, originale, insolita. Paradossale, ma così plausibile!». Scopriamo, allora, che il Diego del quarto capitolo, considerato fino a quel momento protagonista in proprio della sua vicenda, altri non sarebbe che il personaggio di un romanzo che il Diego del quinto capitolo sta cercando di scrivere alcuni anni dopo i fatti narrati (il diario è del 1990 e i fatti risalgono a metà degli Ottanta). Non solo. Il Diego scrittore mancato che così conclude il diario: «Non cadrò nella trappola. Non scriverò nessun romanzo» è lo stesso che poi, nel sesto capitolo, scrive di sé in terza persona un raccontino intriso di romanticherie per fare presa su una donna amata che va e viene e che lui cerca di fermare con la forza delle parole. Raccontino, questo sesto capitolo, che rischierebbe di essere considerato meno riuscito degli altri se non si cogliesse il suo aspetto meta-letterario di maldestra prosa d’amore uscita dalla penna poco accorta di un uomo in pena (viene da pensare all’analoga dinamica messa in atto dal Botho Strauss de La dedica, a cui Ciriachi potrebbe essersi ispirato).
Che poi tutti gli aspetti fin qui sfiorati si concretizzino in una forma capace di omaggiare come si deve la lingua italiana e di allontanarla dall’impoverente omologazione del compitino ben scritto e in odore di sceneggiatura, è da considerare nel novero delle buone notizie. Tanto più positive se si tiene conto che, data la realtà editoriale tristemente nota, a pubblicare il libro è la microscopica ma benemerita casa editrice Coazinzola Press, nata due anni fa grazie al coraggio di Riccardo Duranti, traduttore e poeta da molti lustri impegnato a lavorare seriamente con le parole che ama di un amore libero e corrisposto.
- Fabio Ciriachi, Uomini che si voltano
- Coazinzola Press 2015
- Euro 18