Una lama di luce riflessa nel mare, un ramo di mimosa che appariva e spariva secondo il respiro del vento, un cielo di febbraio insolitamente clemente, dove le nuvole non riuscivano a vincere il sole. Questo incorniciava il telaio della finestra di Maria, mentre lei, china sul cucito, ogni tanto alzava lo sguardo per saziarsene e riposarsi dalla monotonia dei gesti. Non le mancava certo il lavoro in quei mesi, con la miseria che c’era. La gente non aveva abbastanza soldi per comprarsi vestiti nuovi e, anche se li avesse avuti, non avrebbe trovato la stoffa. Mancava tutto o quasi. Si pativa la fame e il freddo, ma bisognava pur coprirsi in qualche modo. E allora si ricorreva a lei, a Maria la vedova, sia per pietà dei suoi due bambini rimasti orfani, ma soprattutto perché era brava come nessuna a smontare vecchi cappotti e giacche consumate, girarne il tessuto e ricucirli secondo un modello nuovo, che li faceva rinascere a nuova vita. Aghi, filo, forbici, gessetti, spille, il tavolo di cucina come base e qualche rivista a cui ispirarsi: questo era il suo atelier. La manualità, la creatività, l’intelligenza facevano il resto. Del resto non era sempre stato nei suoi sogni di ragazza diventare sarta? Ma poi c’erano stati altri impegni: il fidanzamento con Franco, il suo amore di sempre, il matrimonio, i figli e quell’antico sogno era stato messo nel cassetto. Suo marito non voleva gente per casa, era geloso di lei: della sua bocca piccola e carnosa, del suo ovale da madonna fiorentina, dei suoi occhi verdi, della sua cascata di riccioli bruni e soprattutto del suo irresistibile sorriso. Maria a volte si sentiva soffocare dalle sue attenzioni ma lo amava perché era serio, lavoratore e maledettamente attraente. L’intesa fisica era perfetta e questo la ripagava del resto. Poi un giorno di settembre di cinque mesi prima tutto era tragicamente cambiato: Franco era morto nel bombardamento tedesco di Portoferraio, mentre vendeva il pesce al mercato. L’aveva cercato anche lei per un giorno e una notte, scavando a mani nude sotto le macerie e finalmente era apparsa l’asta della bilancia e accanto, ripiegato su se stesso, il corpo tanto amato. L’aveva pianto per una settimana, folle di dolore, accettando soltanto di bere un po’ d’acqua e un po’ di latte, senza cibo, senza più voce per consolare i suoi bambini. Poi aveva capito: doveva rialzare la testa, doveva salvare almeno loro e opporsi con fierezza a quel destino infame. Basta piangersi addosso, farò da padre e da madre a Giovanni e Lia. Sono forte, non ho paura di lavorare, Franco vorrebbe così. Devo dare l’esempio, devo mangiare, devo vivere e far vivere loro. Ce la farò. lo giuro.
E ora si trovava nella sua cucina a dare gli ultimi punti a una giacca ricavata da una coperta militare, contenta di se stessa, pur nella mestizia che le velava lo sguardo, di quello che in quei mesi era riuscita a fare: vendere la barca da pesca del marito a un prezzo accettabile, pagare regolarmente l’affitto, procurare il necessario ai bambini, accudirli, coccolarli. A volte s’inventava le storie più strane e divertenti per farli sorridere, per riempire con la sua forza e la sua gioventù il tremendo vuoto lasciato dalla scomparsa improvvisa del padre. Si sentiva quasi un’eroina di quel periodo tragico. Gli altri drammatici avvenimenti dell’infausto settembre, l’occupazione tedesca dell’Elba e, qualche giorno più tardi, l’affondamento del piroscafo Andrea Sgarallino, silurato dagli inglesi con trecento passeggeri a bordo, erano stati un nuovo distillato di dolore, ma le pareva quasi d’esserne assuefatta, come a una droga. E quasi si meravigliava e si vergognava di non soffrire di più.
S’alzò dalla sedia per preparare qualcosa ai suoi figli che stavano per rincasare dalla scuola: un po’ di minestra, un po’ di pecorino comprato dal pastore sardo che conosceva.
Tornavano insieme, Giovanni e Lia, lui di un passo più avanti, come a protezione della sorellina e a rimarcare la sua superiorità su di lei, per età e per sesso. Maria li guardava senza farsi vedere, orgogliosa di loro.
I momenti migliori per riflettere e prendere decisioni erano mentre cuciva: la mano che, rapida ed esperta, faceva entrare e uscire l’ago dalla stoffa, agiva autonomamente dai suoi pensieri, che erano allora liberi di presentarsi lucidamente, come tanti soldatini schierati in fila per la parata d’onore.
Forse era l’immobilità fisica ad accelerare per compensazione quella mentale. Così, era stato proprio durante il suo lavoro di sarta, seduta alla finestra per catturare anche la minima goccia di luce possibile, che aveva deciso di restare, di restare malgrado i ripetuti inviti dei suoi a raggiungerla a Capri, nella loro terra d’origine, dove si erano ritirati da poco, sopraggiunta l’età del riposo. Quarant’anni prima, ancora freschi sposi, si erano trasferiti all’Elba, come altri, per sfruttare quel mare pescoso che i locali, dediti soprattutto alla miniera e alla campagna, tendevano a trascurare. Grazie a loro e a molti altri campani, su quella nuova isola era nata la pesca professionale che dava il necessario e qualcosa di più. Nella terra d’adozione era nata lei, che si considerava toscana, sebbene la bellezza di Capri, la prima volta che l’aveva vista, con quel mare incredibilmente azzurro, i faraglioni sorgenti come per miracolo dall’acqua, gli ibischi grandi come alberi, le avesse tolto il fiato. E ora i suoi la chiamavano, la volevano, da quando nel settembre era successa la disgrazia. Il sud era libero e lei si sarebbe potuta trasferire giù, accanto alla famiglia che l’avrebbe accolta a braccia aperte e coccolata insieme ai suoi bambini. Eppure non lo desiderava, anzi non lo voleva per nulla. Una forza ostinata la spingeva a restare: qui era nata e si era innamorata, qui aveva concepito e dato alla luce i suoi figli, qui era la tomba di Franco su cui andava a posare quasi ogni giorno un fiore fresco del loro giardino. Non poteva andarsene, anche se non aveva nessun parente all’Elba. Avrebbe fatto da sola.
E così, la mattina presto, faceva suonare appena la sveglia e s’imponeva d’alzarsi per finire i lavori e consegnarli. Il risveglio senza il suo uomo accanto, per qualche minuto la ripiombava nei primi tempi del lutto, nella stessa voragine nera e senza fondo. Ma poi, appellandosi a tutte le sue forze, cercava di programmare mentalmente la giornata che stava per iniziare perché neanche un’ora andasse sprecata e la tristezza non la tiranneggiasse. Quindi allungava la mano e nel cuscino accanto accarezzava i capelli morbidi e ricci della sua bambina addormentata, attenta a non svegliarla nemmeno un minuto prima del necessario. E allora si riconciliava con la vita, nonostante tutto. Grazie, Franco, per i regali che mi hai lasciato…
Intanto, l’inverno, anche se agli sgoccioli, continuava a picchiare duro: ci si scaldava con legna raccattata ovunque, anche sulla spiaggia, ma il freddo e l’umidità mordevano le carni. Da mangiare si trovava pochissimo, anche il pesce era razionato e la gente faceva la fila per procurarsene un po’ dai pescivendoli autorizzati; le ceste che portavano al mercato erano insufficienti a smaltire la fila, che ricominciava il giorno dopo, dove si era interrotta. Ma gli amici di Franco si ricordavano di lei e dei suoi figli e non mancavano mai di portarle un nasellino, un pugnetto di zerri, un calamaro rimasto nella rete. E allora, lei faceva miracoli, profumando lo scarso cibo con qualche erba che trovava in giardino, moltiplicandolo con due o tre patate, sostituendo l’olio cronicamente mancante con un sorso di latte. Si levava il pane di bocca pur di non veder deperire i suoi figli. Lei invece dimagriva a vista d’occhio per il dolore della vedovanza, per il peso delle responsabilità ma anche perché mangiava pochissimo. Lo vedeva dai vestiti, in cui nuotava, dall’immagine che lo specchio le rimandava: Chissà se così gli sarei piaciuta, forse no, mi avrebbe preferito come prima, bella e formosa …e quasi arrossiva al pensiero dei loro amplessi. Le sembrava così lontano il tempo delle vendemmie d’amore: Franco era passionale ma accorto, attento anche al suo piacere. Quanto aveva goduto insieme a lui, quanto si era sentita donna appagata! Ora, al contrario, le pareva d’essere una spugna strizzata o una pietra pomice, grigia, arida e galleggiante nel nulla. Se non fosse stato per Giovanni e Lia, si sarebbe tappata in casa, a leccarsi le ferite e a cullare la solitudine. Ma non poteva.
La primavera s’avvicinava ormai, bussava alla sua porta. Il piccolo giardino era tutto in fermento, le pareva di sentirlo il rumore della linfa dentro il vecchio legno stanco del pesco e dell’albicocco, che premeva sui rami stecchiti e li vivificava e li riempiva di minuscole gemme, non più grandi dei bottoncini che usava lei per le camicette delle donne.
“ Mamma, ho visto le prime rondini!” le annunciò Lia una mattina. E in effetti, alzando lo sguardo, pur non vedendone affatto, trovò il cielo meno vuoto di presenze e di colori E qualche giorno dopo, Giovanni, tutto fiero della sua scoperta: “Lo sapete che c’è un nido sotto il nostro tetto?”
Andarono tutti e tre e davvero notarono una rondinella che andava e veniva dal sottotetto, ogni volta con qualcosa nel becco, un filo di paglia, una piuma, un legnetto.
Il diciannove marzo, il giorno di San Giuseppe, quando, anche in quel tristissimo anno, gli elbani non vollero rinunciare alle tradizionali frittelle di riso e dunque per le vie del paese aleggiava il loro inconfondibile profumo, nella tarda mattinata arrivò a Marina di Campo la notizia del bombardamento alleato su Portoferraio. Altri morti, altre distruzioni, altro dolore nero e spesso come il piombo. Ma l’occupazione tedesca vacillava.
La forza della vita trionfava sui lutti, sulla morte, sulla violenza. Così la giovane donna vedeva sbocciare, insieme ai fiori e ai nidi, i ventri delle spose, la cui gravidanza, nascosta fino a poco prima dei cappotti e dalle giacche, esplodeva ora nelle vesti più leggere e non riusciva a impedirsi di provare una dolorosa punta di invidia per loro, perché a lei non sarebbe mai più capitato.
Le notizie che captava dai discorsi della gente, dai notiziari radio, da qualche pagina di giornale in cui i suoi clienti avvolgevano le povere stoffe che le portavano, raccontavano una guerra sempre più cruenta e disperata per i nazisti. C’era nell’aria l’attesa di un grande sbarco che avrebbe messo in ginocchio il Terzo Reich e risolto di riflesso anche la situazione italiana, dove il fronte che divideva il Paese tra il sud liberato e il centro nord sotto il controllo nazifascista, procedeva lentissimo, con affanno, inghiottendo come un mostro famelico non solo partigiani e alleati, ma anche le disgraziate popolazioni incrociate nel suo cammino. Maria era sconvolta dalle notizie delle stragi, che si guardava bene dal raccontare, stringendosi al seno i suoi figli in uno slancio di commovente quanto inutile protezione.
Era appena finita la scuola, quando in paese si cominciò a sussurrare la notizia che qualcosa di grosso si stava preparando sull’isola. Nessuno sapeva niente di preciso ma le voci si concentravano, ancora una volta, sul termine sbarco. Il sei giugno c’era stato quello grandioso in Normandia, che aveva vomitato sulle spiagge designate una quantità tale di uomini e mezzi che i tedeschi sbalorditi quasi non credevano ai loro binocoli, al vederli, pur reagendo con prontezza e rispondendo a dovere dalle loro postazioni. La battaglia alleata per conquistare e tenere quel lembo di costa si era rivelata una carneficina: moltissimi di quei giovani erano stati falcidiati –Poveri ragazzi ma anche povere mamme povere mogli povere sorelle! aveva pensato Maria- ma non pochi erano riusciti a sfondare. Lo sbarco era riuscito.
Ora s’aspettava qualcosa di grosso anche nel Mediterraneo, ma non si sapeva dove, si bisbigliava l’Elba.
La mattina del diciassette Maria si era trattenuta a letto più del consueto. Verso le otto, sentì bussare alla porta, s’alzò sorpresa e inquieta:
“Sono sbarcati, sono sbarcati gli Alleati, vengono dalla Corsica, stanno già combattendo contro i tedeschi. State in casa, non uscite! Rimediate senza uscire?”
“Sì, sì, Francesco, non ti preoccupare” rispose la donna, che invece tremava come una foglia
“Mamma, che succede?” chiese sonnacchioso Giovanni, che si sentiva la responsabilità d’unico maschio di casa
“Sono arrivati i nemici dei tedeschi, sono nostri amici…stanno combattendo per liberare l’isola. E’ pericoloso muoversi. Oggi non si esce di casa!”
“Lia, Lia, svegliati!”
“Ma lasciala stare, povera piccola…”lo rimproverò la mamma facendogli gli occhiacci
Per tutto il giorno, Giovanni sbirciò dalla finestra, uscì nel giardinetto, prontamente richiamato dalla madre che strillava da dentro perché rientrasse, passò ore a guardare col binocolo del babbo nella rada e in effetti vide imbarcazioni strane al largo e udì colpi di fucile e colpi di cannonate dalla spiaggia. Era eccitato e impaurito nello stesso tempo. Attratto dal richiamo atavico della guerra, dello scontro fisico, ma terrorizzato al pensiero del pericolo che anche la gente normale, e quindi pure lui, sua madre e sua sorella, le uniche persone al mondo che gli fossero rimaste, correvano.
Passò così quasi tutto il pomeriggio. Verso sera, Luciana, la moglie di Francesco passò per una visita. Non stavano lontano, appena un po’ più in alto, sulla collina; portava un po’ di zuppa, qualche sardina marinata. Si fece promettere che l’indomani mattina, Maria le avrebbe mandato i bambini per una piccola festicciola: era il compleanno dei suoi gemelli, Giuseppe e Vittorio, e pur nella ristrettezza dei tempi, voleva festeggiarli. A Maria non sembrò vero: la giornata quasi trascorsa le era sembrata interminabile, era dovuta stare dietro ai figli e alla casa e l’idea del lavoro arretrato la faceva stare sulle spine. Le voci erano che gli alleati erano riusciti a far retrocedere i tedeschi a monte ma che la situazione era ancora incerta. Sarebbero occorsi altri giorni di lotta per vincerli e per tutta la notte Maria, tesa come una corda di violino, stretta a entrambi i suoi figli che ospitava nel letto, sentì in lontananza i colpi secchi dei fucili e lo strepito delle mitragliatrici.
1. continua
M.Gisella Catuogno