Martin Amis è una specie di genio. O meglio un grande scrittore con lampi da genio e sovente qualche eccesso virtuosistico di troppo.
La vedova incinta, il suo ultimo romanzo uscito lo scorso anno in Inghilterra e tradotto da Einuadi a maggio, è l'emblema della sua scrittura: un libro complesso, avvitato su stesso, spesso fumoso e lontano dal suo centro. Eppure. Eppure
Amis sa illuminare le sue pagine come pochi altri scrittori contemporanei. Per parecchio del suo tempo cazzeggia con citazioni, rimandi letterari, paroloni utilizzati per eventi privi di interesse spacciati per "traumi", "ferite", "guerre". Sembra giocare sul vuoto, più che con il vuoto. E poi. E poi arriva il paragrafo che squarcia il velo, che rivaluta la costruzione bizantina delle altre frasi, che spara a colpo sicuro e come una freccetta ben lanciata - per citare un altro suo lavoro - centra al cuore il bersaglio. E fa della sua opera la versione più moderna (ancora modernista) dell'elegia del ridicolo celebrata e al tempo stesso sbertucciata dalla maestria spietata di
Saul Bellow (che di
Amis è stato il grande maestro). A volte, come in
La freccia del tempo o L'informazione, l'economia minimale o massimale dello stile è funzionale al racconto. A volte, come nella
Vedova incinta, lo stile rischia di appesantire il romanzo. Ma passaggi come questo, sul rapporto tra donna e donna considerato dallo sguardo stupido e stupito di un uomo (ma potrei citarne a decine su altri argomenti), rendono questo libro controverso degno di essere divorato.
"Keith sapeva che la diplomazia o politica donna-donna era una cosa che non avrebbe mai capito; era come guardare un mare lucente dall'alto di una scogliera, i milioni di punti luminosi che saettavano da un gocciolina all'altra - irrintracciabili. Una disciplina arcana, come la termodinamica molecolare. Laddove il disamore maschile era semplice indolenza, con il suo fair play..."
Insomma, io lo consiglio.