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"Ternitti" di Mario Desiati

Creato il 09 maggio 2011 da Sulromanzo

Ternitti di Mario Desiati«Mimì non era donna da essere amata dai poeti. Era troppo umana e troppo reale per essere trasfigurata da qualche scribacchino. Non era donna che poteva consegnarsi a qualche verso. A volte nulla per una donna è più offensivo di una poesia».
Impossibile, dunque, definire con le parole Domenica Orlando, conosciuta da tutti come Mimì, protagonista di Ternitti di Mario Desiati, (Mondadori, pagg. 264) tra i dodici libri selezionati per il Premio Strega 2011.
Il titolo è una parola del dialetto salentino ed ha un duplice significato: Ternitti è la pronuncia dialettale dell’Eternit - ternitti venivano chiamate anche le fabbriche che producevano cemento amianto - e, per metonimia, dei tetti che di quel materiale erano composti. E il cemento amianto è il “fil rouge” di questo romanzo, un racconto lungo trentasei anni, che parte da Tricase nel 1975 quando Mimì, a quindici anni, si trasferisce con la famiglia in Svizzera, per seguire il padre operaio in una fabbrica di ternitti. Una vita di stenti, senza una propria dimora, nella gelida “casa di vetro”, una vecchia vetreria abbandonata, che offriva il primo ricovero agli emigrati italiani, ignari che quel
lavoro tanto agognato avrebbe portato loro solo malattia e morte. Attraverso le vicende di Mimì e della sua famiglia, Desiati racconta la tragedia silenziosa di quasi duemila abitanti dei comuni di Capo di Leuca, che si trasferirono in Svizzera per lavorare come operai nella fabbrica d’amianto di Niederurnen, nel cantone Glarus e si ammalarono di asbestosi e mesotelioma pleurico. Ma Desiati, pur attento a questo dramma sociale, è attratto dalla vita di Mimì che nella “casa di vetro” si innamora per la prima volta di Ippazio, un giovane operaio della fabbrica e, adolescente, rimane incinta.

Abbandonata dall’uomo che ama, con grande coraggio decide di non abortire e dopo due anni ritorna nel Salento, a Lucugnano, «un luogo di iusi bianchi in mezzo ad una rada di ulivi e di grano», dove vive prendendosi cura di sua figlia Arianna e di suo fratello Biagino e lavora come operaia in un cravattificio. Donna poco addomesticabile, «che scompaginava le convenzioni», non ha paura di vivere e di amare, nonostante le atroci sofferenze ed i lutti: «ogni notte più lontana dall’adolescenza, Mimì sentiva salire in bocca, sin sulla punta della lingua, il sapore dell’amianto e poteva vedere benissimo le bianche fibre d’asbesto che si erano mangiate tutti i maschi che aveva avuto attorno».

Mimì, come le altre donne del romanzo, osa ribellarsi per difendere la propria terra e non esita a vivere sul tetto della fabbrica di cravatte dove lavora per protestare contro la chiusura; anche Arianna, sua figlia, si impegna tenacemente per rivendicare i diritti delle vittime dell’amianto. Sono orfane e vedove che non perdono mai la voglia di vivere, anzi esercitano l’arte della gentilezza, di dantesca memoria, per salvarsi.
Un inno al riscatto e alla vita in una Puglia terra del sole, degli ulivi e delle scogliere ma anche della profonda umanità. Quella delle partite a biliardino, dei tuffi in mare, delle luci e delle musiche delle feste patronali.

Una narrazione matura, frutto di una scrittura lunga cinque anni, impreziosita da numerosi tropi che bene si mescolano al realismo del dialogato dialettale. Se l’Eternit che procura morte, paradossalmente, deriva da aeternitas, eterne sono le pietre raccontate in queste pagine. Le pietre dei trulli, dei muretti a secco e delle pajare. Ed eterno è il potere della scrittura, che in questo romanzo spesso diventa pura poesia.


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