MIA LECOMTE
TERRA DI RISULTA (Milano, La Vita Felice,2009).
Nota critica di Gabriela Fantato
Pagg.84
Prezzo:euro 10
Scrive Gabriela Fantato nella nota critica intitolata Una parola tra pathos e distanza che introduce il libro : Terra di risulta è un titolo indubbiamente insolito per una raccolta di poesia, in quanto il termine è specificamente usato in ambito di ingegneria edile, anche in campo tecnico-ecologico e, talvolta, per scavi archeologici, in quanto indica i vari materiali scaturiti dall’attività di scavo e allude a tutto ciò che resta o si ricava, un misto di terra e detriti, pietre e residuato fossile, non assimilabile ai rifiuti, ma che può essere riutilizzato, dopo un’ulteriore cernita. In effetti, il tono e l’atmosfera che attraversa questo nuovo libro di Mia Lecomte- è proprio una poetica in re: la poesia parte dalle cose, per inoltrarsi poi in uno scavo che riveli il senso.
Poesia dunque, che rifuggendo dalla mimesi e dalla visionarietà, così come il lirismo consueto centrato sulle vicende intime dell’io, segue un’altra via che si richiama a una precisa tradizione, che, in parte almeno, è ricollegabile al nome magistrale di Antonio Porta. Poesia certamente di ricerca e sperimentazione, seppure lontana da una linea poetica di una certa avanguardia che si può far risalire a Sanguineti, per capirci, in quanto la poetessa italo-francese vede nella parole poetica, nel suo ritmo incalzante, nella costruzione sintattica slogata e ricca di enjambements non il modo per denunciare la vanità della lingua e l’impossibilità del comunicare in un mondo degradato, ma la via per attingere il senso più nascosto del reale. L’autrice, infatti, si avvicina ai realia nella loro quotidianità e dà voce a oggetti e luoghi concreti, a persone e animali celebri,storici o letterari,per mostrare il perturbante,ovvero ciò che- da Freud in poi-ci è assolutamente familiare e assolutamente alieno[…]. Possiamo dire che questa è veramente poesia di scavo che indaga nel patrimonio del vissuto individuale e nell’immaginario, ma che sonda il passato non per nostalgia, non per un elegiaco canto di ciò che c’era, bensì per scendere in profondità e dirci che tutti abitiamo e contemporaneamente non abitiamo la terra, potremmo dire. Se fosse solo così avremmo un testo filosofico e non poesia, ma dal nome di un luogo, di un animale o di una città, così come da quello di un oggetto della produzione-conosciuto dall’autrice da bambina come personaggio della pubblicità nel famoso Carosello anni sessanta-prende vita sulla pagina un “congegno linguistico” percussivo e ad ampie volute che, scendendo e dilatandosi, rivela con il suo procedere che ogni esistenza è segnata dalla disappartenenza […]Vi è però nel libro una forte tensione religiosa e lo si vede subito nel testo che, come esergo, apre la raccolta. «Pietà di noi,pietà/ dell’erba che non cresce,pietà/ del tetto e la facciata,degli usci/ senza chiave, pietà, dei nostri/ ambienti vuoti, pietà del suono e / della luce, ancora spenti»[…], il che ci fa dire che quella di Mia è poesia della soglia,in bilico tra pathos e distanza, sorta di controcanto dell’esistenza…
LUCETTA FRISA
LEZIONI SALENTINE
a Julio
Se volessi a questo punto spiegare:
si sta fra due mari, è già noto, ma non
come scissi o appena lambiti nei margini,
per quanto ingenui e non mancano i fatti,
si sta come stare davvero nel mezzo
del senso più profondo di stare tra due mari
consapevoli delle rocce che squarciano spiagge
della luce che finisce più presto più tarda
del freddo dentro e fuori la grotta già caldo,
per quanto traditi e non restano scuse,
si sta come sta quella quercia che è sola
a mille anni per tutta una specie
due nel mondo con quell’altra in città
millenarie come dire due volte è domani
senza tutti i gabbiani che mancano si sta
come il volo al contrario delle molte farfalle
senza alice al di là dello specchio le sue ali
di burro perché qui è sempre l’olio a bruciare la gola.
Se volessi. Autorità vecchie e nuove a succedersi
per le lame di un barbiere annunciato
nello zucchero a fregi dei palazzi più rochi
con il volto nel palmo tra vino e pezzetto
e poi il giorno di vento in cui la Madonna turchina
è un burattino di carne sottobraccio ai gendarmi
distratta dalla tiara di seta che è sfuggita al vicario
del suo figlio unigenito che non usa l’elastico
evviva sirene la fanfara assetata e lei piange
in corteo sulla barca che la porta lontano
la sera di vento la Madonna ha finito le lacrime
e dal faro spende fuochi a coprire fittamente di lune
un cielo brusco a rovescio tra ulivi e india in fichi.
Spiegare forse è troppo per una terra ammucchiata
tutta in fondo alla fine e non basta
se volessi a quest’ora è deserta la platea abbacinata
in un intreccio molte volte paziente d’aria e paglia
si intravedono nuche e spalle nelle stanze
e le sedie rimangono fuori tutte sparse
a reprimere gli eccessi della danza più frenetica
che dall’ombra abbia preso respiro.
Questo è tipico. Dalle mandorle si fa pasta e un latte
amniotico in cui affoga ogni inizio che non osa iniziare
profumano dolci semplici, farina e qualche uovo,
e creme che si addensano all’ultimo ma per
scegliere alla fine sempre il lento godere di mandorla
in attesa sopra teche oltre l’angolo
dove ancora si incarta il silenzio senza briciole.
Di trasferirsi nel sogno s’è parlato al caffé
e le tende si gonfiavano col fiato passito
da una notte di cerca e non trova le parole più sconce
che risuonino come ognuna sa fare
violenta e repressa e poi finalmente sulla pezza
distesa supina, nel bianco, dimenando.
Per spiegare dovrei dire del nome di un frutto
che in sé ha racchiuso il colore della fradicia polpa
inquadrata nel vano con i semi che schizzano
l’anguria dal coltello lungo il mento il petto
il ventre del pachiderma osceno così osceno
all’infinito inquadrato nel vano a saziarsi.
Cosa manca, se volessi spiegare, sotto il portico
mentre i gatti si passano code di lucertole e bachi
nell’odore di lysoform e alcol in ginocchio
perché tutto ritorni incorrotto tra il grembiule e
lo straccio della muta che lavora duramente a stagione
nel giardino dove amache divaricano alberi e il muro
gira a vuoto aspirando a un perimetro organico
cosa manca per ricevere gli altri davvero
come ospiti illustrando abitudini e luoghi souvenirs
e genomi di una casa che sia proprio una casa dalle origini
fino al solito telegramma arrivato stamani tanto presto:
per andarsene stop come sempre stop
imboccare la strada più esterna stop
e continuare
NOTTURNO CORSO
Il sogno di Antoinette
la sorprende sempre a sera
mentre spezza il pane
il vino è ancora nel bicchiere
e dal suo tavolo nel mezzo del cortile
tocca un cartoccio pallido
riconosce la lama per la polvere
e s’appoggia allo schienale rigido
per un attimo si piega
si svolge identico ogni volta
che l’uccello lo riconferma sogno
riprende il suo canto in forma
di roveto quel ritornello semplice
che il vento riassume in questo cimitero
dove si muore sempre con lo stesso nome
nel sogno Antoinette è vecchia e nera
se si solleva affonda il coltello nel cartoccio
succhia il vino intriso al pane e intanto chiama
sempre più a lutto nel suo vestito nuovo
più sola al culmine del sogno vero in
cui una cernia immensa langue nella teca
e due cinghiali lattei corrono per
la cruna di un minuscolo pagliaio
Antoinette ha un sogno eterno
e il rovescio di ogni suo diluvio
si rinnova nella terra emersa
nell’isola che dal sogno lei
ripopola ogni volta che l’uccello
si riposa sul suo pane
una stagione le simula il giardino
o cresce ancora la voce tutta umana
che non ricorda qual è il nome
e va a morire altrove.
TRA I CARPAZI
Tutta l’infanzia trascinata in questa domenica
si inginocchia sulla scala dietro al coro a Piata
Mare dove i nastri dei rom intrecciano ciocche
di crine e fuoco e certi preti hanno barbe o tonache
o cieli bianchi posati sul ventre al posto del cuore
tormenta coi denti il fazzoletto leggero che
le rose annodano al mento o sulla nuca
le voci sono semplici si somigliano tutte
riportano il coro alla pazienza del figlio
perché mi hai abbandonato
a quell’unica nota che l’infanzia riconosce
nel palato sulla lingua dura in gola
sa imitare ancora adesso che si alza piano
piano e le ginocchia fanno male per un poco.
STIGLER-OTIS[1]
Il pesce muore lentamente dal fondo
e dal fondo lentamente noi proviamo a
salire gli occhi tutti rivolti al soffitto
tra le branchie il gonfiore inclinato
lo sguardo lo teniamo tutti fisso
all’intonaco pallido forse l’acqua si potrebbe
far scura mentre il pesce quasi immobile
sta lasciando di sotto la sua impronta
gelata proprio dove ci troviamo a
passare uno scarto di ossigeno rauco
che sarebbe difficile eludere adesso
che proviamo tutti insieme a salire
mentre il pesce a ogni piano dal fondo
lentamente nel precederci muore.
TEDDY BEAR
Dalla camera ardita della tua fame
sul giaciglio sconcio del tuo orgoglio
dormi dormi bimbo bello
la tua mamma non è con te
per la fibra densa del tuo respiro
con l’odore brusco della tua presa
dormi dormi bimbo buono
la tua mamma non è con te
sotto l‘ombra diritta delle tue reni
dietro il calco scuro del tuo costato
dormi dormi bimbo grande
la tua mamma non è con te
nel sospetto breve della tua occasione
al rimpianto lento della tua infedeltà
dormi dormi bimbo solo
la tua mamma non è con te
oltre il giorno reale che hai aspettato
e la notte ultima che è andata smarrita
dormi dormi bimbo mio
non ti resta che stringerti a me.
PYTHON
Dove ha inizio la mia coda,
quello che fa di me la bestia
condannata a strisciare in eterno
sopra il ventre o sulla coda
che non so dove inizia se
dagli occhi, la bocca, dal cuore
il sesso o più giù all’infinito
dove inizia quell’urgenza
di vita che mi rende tutt’uno
col profumo svergognato del suolo
che mi accende le anse
lungo il ventre o la coda
e mi incarna a strusciarmi con
la parte più esposta all’inferno
scorticando l’ardore in
membrane di stagioni malevole
a divorare la polvere
sempre stretto alla vita che anelo
ripartita dalla coda,
dove ha inizio la mia coda,
per strisciare in eterno.
A BURIDANO[2]
Forse io non so scegliere
e potrei un giorno morirne,
sei tu a affermarlo
e ne sembri convinto,
rimarrei qui forse a aspettare
che la scelta si compisse da sé,
sei tu a insegnarlo
e non ne hai alcun dubbio,
e alla fine vincerebbe la fame
o una forma mortale di inedia,
sei tu a ricordarlo
lo ripeti e lo scrivi,
ma che dire del violento tepore del fieno
nella notte o la mattina d’inverno,
che sai dirmi del suo folle profumo
a insinuarsi nel sonno più ottuso
su, prova a dirmi dell’urgente colore
che si strugge in quei due cumuli accesi
e non si può che toccare, annusare
riguardare, riguardare
senza osare scegliere mai.
DUMBO Sr
Che ricorrenza esausta
rossa di candeline
a sciogliersi via via nella glassa
gridare al fuoco è ormai inutile
senza altre fiere riunite a applaudire
come moltiplicare trentini
che neanche trotterellano più o
infornare in un tondo vaniglia
la radice quadrata degli anni
il compleanno dell’elefante
alla fine si spegne per pochi
la proboscide come destino non
prevede molte allegre carcasse
tutte specie sospettate di morte
al massimo uno zombie gigante.
CHIOCCIOLA
a Maria Grazia
Non ricordo la maternità
sotto la quercia secolare
magnifica tra i menhir ritagliati
nel muschio cosa fa sì che il
dolore si disperda in un riflesso
di bava domestica ricondotta
sul suolo dal profondo del mio
transito corneo non avverto che
l’intimità di queste poche radici
di cui invidio le sedi incarnate
quattro i gattini si svegliano adesso
giocano al gusto della mia scia
miti cetacei sul passato dell’acqua
la maternità eppure non la ricordo
la bocca vuota trascinata dal peso
della scorza di fango della pietra
dall’assenza di ossa.
JAGDTROPHAE
La famiglia si è smembrata
ed è rimasta la mia testa
a sorprendere l’amore
in prospettiva inusitata
a difendere la noia sorvegliare
l’ansia al cubo aspettare che
la luce faccia il giro dello
spazio e poi sparisca tutto
sotto sorvolato senza
il corpo e i suoi bisogni
senza voce a grugno aperto
la mia testa qui da sola.
L’autrice
Mia Lecomte è nata nel 1966 e attualmente vive a Roma.Poeta, autrice per l’infanzia e di teatro, tra le ultime pubblicazioni si ricordano la raccolta poetica Autobiografie non vissute (Manni,2004), la cura dell’antologia Ai confini del verso.Poesie della migrazione in italiano(Le Lettere,2006) e i libri per bambini Come un pesce nel diluvio (Sinnos,2008) e L’altracittà (Sinnos 2010).
Traduttrice dal francese, è curatrice tra le altre della raccolta poetica La casa del respiro del poeta cileno francofono Luis Mizòn(La Vita Felice,2008).Svolge attività critica ed editoriale nell’ambito della comparatistica,e in particolare della letteratura della migrazione, è redattrice di diverse riviste letterarie e collabora a” Le Monde diplomatique”,inserto mensile del quotidiano “Il Manifesto”.
[1] Storico marchio italiano di ascensori.
[2] A Giovanni Buridano, filosofo medioevale, è attribuito il paradosso secondo il quale se un asino venisse costretto a scegliere fra due cumuli identici di fieno, nell’incertezza finirebbe per morire di fame.