Magazine Cultura

TERRA DI RISULTA di Mia Lecomte

Creato il 21 luglio 2010 da Viadellebelledonne

TERRA DI RISULTA di Mia LecomteMIA LECOMTE

TERRA DI RISULTA (Milano, La Vita Felice,2009).

Nota critica di Gabriela Fantato

Pagg.84

Prezzo:euro 10

  

Scrive Gabriela Fantato nella nota critica  intitolata  Una parola tra pathos e distanza che introduce il libro : Terra di risulta è un titolo indubbiamente insolito per una raccolta di poesia, in quanto il termine è specificamente usato in ambito di ingegneria edile, anche in campo tecnico-ecologico e, talvolta, per scavi archeologici, in quanto indica i vari materiali scaturiti dall’attività di scavo e allude a tutto ciò che resta o si ricava, un misto di terra e detriti, pietre e residuato fossile, non assimilabile ai rifiuti, ma che può essere riutilizzato, dopo un’ulteriore cernita. In effetti, il tono e l’atmosfera che attraversa questo nuovo libro di Mia Lecomte- è proprio una poetica in re: la poesia parte dalle cose, per inoltrarsi poi in uno scavo che riveli il senso.

Poesia dunque, che rifuggendo dalla mimesi e dalla visionarietà, così come il lirismo consueto centrato sulle vicende intime dell’io,  segue un’altra via che si richiama a una precisa tradizione, che, in parte almeno, è ricollegabile al nome magistrale di Antonio Porta. Poesia certamente di ricerca e sperimentazione, seppure lontana da una linea poetica di una certa avanguardia che si può far risalire a Sanguineti, per capirci, in quanto la poetessa italo-francese vede nella parole poetica, nel suo ritmo incalzante, nella costruzione sintattica slogata e ricca di enjambements non il modo per denunciare la vanità della lingua e l’impossibilità del comunicare in un mondo degradato, ma la via per attingere il senso più nascosto del reale. L’autrice, infatti, si avvicina ai realia nella loro quotidianità e dà voce a oggetti e luoghi concreti, a persone e animali celebri,storici o letterari,per mostrare il perturbante,ovvero ciò che- da Freud in poi-ci è assolutamente familiare e assolutamente alieno[…]. Possiamo dire che questa è veramente poesia di scavo che indaga nel patrimonio del vissuto individuale e nell’immaginario, ma che sonda il passato non per nostalgia, non per un elegiaco canto di ciò che c’era, bensì per scendere in profondità e dirci che tutti abitiamo e contemporaneamente non abitiamo la terra, potremmo dire. Se fosse solo così avremmo un testo filosofico e non poesia, ma dal nome di un luogo, di un animale o di una città, così come da quello di un oggetto della produzione-conosciuto dall’autrice da bambina come personaggio della pubblicità nel famoso Carosello anni sessanta-prende vita sulla pagina un “congegno linguistico” percussivo e ad ampie volute che, scendendo e dilatandosi, rivela con il suo procedere che ogni esistenza è segnata  dalla disappartenenza […]Vi è però nel libro una forte tensione religiosa e lo si vede subito nel testo che, come esergo, apre la raccolta. «Pietà di noi,pietà/ dell’erba che non cresce,pietà/ del tetto e la facciata,degli usci/ senza chiave, pietà, dei nostri/ ambienti vuoti, pietà del suono e / della luce, ancora spenti»[…], il che ci fa dire che quella di Mia è poesia della soglia,in bilico tra pathos e distanza, sorta di controcanto dell’esistenza…

 

LUCETTA FRISA

 

 

 

LEZIONI SALENTINE

   a Julio

Se volessi a questo punto spiegare:

si sta fra due mari, è già noto, ma non

come scissi o appena lambiti nei margini,

per quanto ingenui e non mancano i fatti,

si sta come stare davvero nel mezzo

del senso più profondo di stare tra due mari

consapevoli delle rocce che squarciano spiagge

della luce che finisce più presto più tarda

del freddo dentro e fuori la grotta già caldo,

per quanto traditi e non restano scuse,

si sta come sta quella quercia che è sola

a mille anni per tutta una specie

due nel mondo con quell’altra in città

millenarie come dire due volte è domani

senza tutti i gabbiani che mancano si sta  

come il volo al contrario delle molte farfalle

senza alice al di là dello specchio le sue ali 

di burro perché qui è sempre l’olio a bruciare la gola.

Se volessi. Autorità vecchie e nuove a succedersi

per le lame di un barbiere annunciato

nello zucchero a fregi dei palazzi più rochi

con il volto nel palmo tra vino e pezzetto

e poi il giorno di vento in cui la Madonna turchina

è un burattino di carne sottobraccio ai gendarmi

distratta dalla tiara di seta che è sfuggita al vicario

del suo figlio unigenito che non usa l’elastico

evviva sirene la fanfara assetata e lei piange

in corteo sulla barca che la porta lontano

la sera di vento la Madonna ha finito le lacrime

e dal faro spende fuochi a coprire fittamente di lune

un cielo brusco a rovescio tra ulivi e india in fichi.

Spiegare forse è troppo per una terra ammucchiata

tutta in fondo alla fine e non basta

se volessi a quest’ora è deserta la platea abbacinata

in un intreccio molte volte paziente d’aria e paglia

si intravedono nuche e spalle nelle stanze

e le sedie rimangono fuori tutte sparse

a reprimere gli eccessi della danza più frenetica

che dall’ombra abbia preso respiro.

Questo è tipico. Dalle mandorle si fa pasta e un latte

amniotico in cui affoga ogni inizio che non osa iniziare

profumano dolci semplici, farina e qualche uovo,

e creme che si addensano all’ultimo ma per

scegliere alla fine sempre il lento godere di mandorla

in attesa sopra teche oltre l’angolo

dove ancora si incarta il silenzio senza briciole.

Di trasferirsi nel sogno s’è parlato al caffé

e le tende si gonfiavano col fiato passito

da una notte di cerca e non trova le parole più sconce

che risuonino come ognuna sa fare

violenta e repressa e poi finalmente sulla pezza

distesa supina, nel bianco, dimenando.

Per spiegare dovrei dire del nome di un frutto

che in sé ha racchiuso il colore della fradicia polpa  

inquadrata nel vano con i semi che schizzano

l’anguria dal coltello lungo il mento il petto

il ventre del pachiderma osceno così osceno

all’infinito inquadrato nel vano a saziarsi.

Cosa manca, se volessi spiegare, sotto il portico

mentre i gatti si passano code di lucertole e bachi

nell’odore di lysoform e alcol in ginocchio

perché tutto ritorni incorrotto tra il grembiule e

lo straccio della muta che lavora duramente a stagione

nel giardino dove amache divaricano alberi e il muro

gira a vuoto aspirando a un perimetro organico

cosa manca per ricevere gli altri davvero

come ospiti illustrando abitudini e luoghi souvenirs

e genomi di una casa che sia proprio una casa dalle origini

fino al solito telegramma arrivato stamani tanto presto:

per andarsene stop come sempre stop

imboccare la strada più esterna stop

e continuare

NOTTURNO CORSO

Il sogno di Antoinette

la sorprende sempre a sera

mentre spezza il pane

il vino è ancora nel bicchiere

e dal suo tavolo nel mezzo del cortile

tocca un cartoccio pallido

riconosce la lama per la polvere

e s’appoggia allo schienale rigido

per un attimo si piega

si svolge identico ogni volta

che l’uccello lo riconferma sogno

riprende il suo canto in forma

di roveto quel ritornello semplice

che il vento riassume in questo cimitero

dove si muore sempre con lo stesso nome

nel sogno Antoinette è vecchia e nera

se si solleva affonda il coltello nel cartoccio

succhia il vino intriso al pane e intanto chiama

sempre più a lutto nel suo vestito nuovo

più sola al culmine del sogno vero in

cui una cernia immensa langue nella teca

e due cinghiali lattei corrono per

la cruna di un minuscolo pagliaio

Antoinette ha un sogno eterno

e il rovescio di ogni suo diluvio

si rinnova nella terra emersa

nell’isola che dal sogno lei

ripopola ogni volta che l’uccello

si riposa sul suo pane

una stagione le simula il giardino

o cresce ancora la voce tutta umana

che non ricorda qual è il nome

e va a morire altrove.

TRA I CARPAZI

Tutta l’infanzia trascinata in questa domenica

si inginocchia sulla scala dietro al coro a Piata

Mare dove i nastri dei rom intrecciano ciocche

di crine e fuoco e certi preti hanno barbe o tonache

o cieli bianchi posati sul ventre al posto del cuore

tormenta coi denti il fazzoletto leggero che

le rose annodano al mento o sulla nuca

le voci sono semplici si somigliano tutte

riportano il coro alla pazienza del figlio

perché mi hai abbandonato

a quell’unica nota che l’infanzia riconosce

nel palato sulla lingua dura in gola

sa imitare ancora adesso che si alza piano

piano e le ginocchia fanno male per un poco.

STIGLER-OTIS[1]

Il pesce muore lentamente dal fondo

e dal fondo lentamente noi proviamo a

salire gli occhi tutti rivolti al soffitto

tra le branchie il gonfiore inclinato

lo sguardo lo teniamo tutti fisso

all’intonaco pallido forse l’acqua si potrebbe

far scura mentre il pesce quasi immobile

sta lasciando di sotto la sua impronta

gelata proprio dove ci troviamo a

passare uno scarto di ossigeno rauco

che sarebbe difficile eludere adesso

che proviamo tutti insieme a salire

mentre il pesce a ogni piano dal fondo

lentamente nel precederci muore.

TEDDY BEAR

Dalla camera ardita della tua fame

sul giaciglio sconcio del tuo orgoglio

dormi dormi bimbo bello

la tua mamma non è con te

per la fibra densa del tuo respiro

con l’odore brusco della tua presa

dormi dormi bimbo buono

la tua mamma non è con te

sotto l‘ombra diritta delle tue reni

dietro il calco scuro del tuo costato

dormi dormi bimbo grande

la tua mamma non è con te

nel sospetto breve della tua occasione

al rimpianto lento della tua infedeltà

dormi dormi bimbo solo

la tua mamma non è con te

oltre il giorno reale che hai aspettato

e la notte ultima che è andata smarrita

dormi dormi bimbo mio

non ti resta che stringerti a me.

PYTHON  

    

Dove ha inizio la mia coda,

quello che fa di me la bestia

condannata a strisciare in eterno

sopra il ventre o sulla coda

che non so dove inizia se

dagli occhi, la bocca, dal cuore

il sesso o più giù all’infinito

dove inizia quell’urgenza

di vita che mi rende tutt’uno

col profumo svergognato del suolo

che mi accende le anse

lungo il ventre o la coda

e mi incarna a strusciarmi con

la parte più esposta all’inferno

scorticando l’ardore in

membrane di stagioni malevole

a divorare la polvere

sempre stretto alla vita che anelo

ripartita dalla coda,

dove ha inizio la mia coda,

per strisciare in eterno.

A BURIDANO[2]

Forse io non so scegliere

e potrei un giorno morirne,

sei tu a affermarlo

e ne sembri convinto,

rimarrei qui forse a aspettare

che la scelta si compisse da sé,

sei tu a insegnarlo

e non ne hai alcun dubbio,

e alla fine vincerebbe la fame

o una forma mortale di inedia,

sei tu a ricordarlo

lo ripeti e lo scrivi,

ma che dire del violento tepore del fieno

nella notte o la mattina d’inverno,

che sai dirmi del suo folle profumo

a insinuarsi nel sonno più ottuso

su, prova a dirmi dell’urgente colore

che si strugge in quei due cumuli accesi

e non si può che toccare, annusare

riguardare, riguardare

senza osare scegliere mai.

DUMBO Sr

Che ricorrenza esausta

rossa di candeline

a sciogliersi via via nella glassa

gridare al fuoco è ormai inutile

senza altre fiere riunite a applaudire

come moltiplicare trentini

che neanche trotterellano più o

infornare in un tondo vaniglia

la radice quadrata degli anni

il compleanno dell’elefante

alla fine si spegne per pochi

la proboscide come destino non

prevede molte allegre carcasse

tutte specie sospettate di morte

al massimo uno zombie gigante.

CHIOCCIOLA

   a Maria Grazia

Non ricordo la maternità

sotto la quercia secolare 

magnifica tra i menhir ritagliati

nel muschio cosa fa sì che il

dolore si disperda in un riflesso

di bava domestica ricondotta

sul suolo dal profondo del mio

transito corneo non avverto che

l’intimità di queste poche radici

di cui invidio le sedi  incarnate

quattro i gattini si svegliano adesso

giocano al gusto della mia scia

miti cetacei sul passato dell’acqua

la maternità eppure non la ricordo

la bocca vuota trascinata dal peso

della scorza di fango della pietra

dall’assenza di ossa.

 

 

JAGDTROPHAE

La famiglia si è smembrata

ed è rimasta la mia testa

a sorprendere l’amore

in prospettiva inusitata

a difendere la noia sorvegliare

l’ansia al cubo aspettare che

la luce  faccia il giro dello

spazio e poi sparisca tutto

sotto sorvolato senza

il corpo e i suoi bisogni

senza voce a grugno aperto

la mia testa qui da sola.

L’autrice

Mia Lecomte è nata nel 1966 e attualmente vive a Roma.Poeta, autrice per l’infanzia e di teatro, tra le ultime pubblicazioni si ricordano la raccolta poetica Autobiografie non vissute (Manni,2004), la cura dell’antologia Ai confini del verso.Poesie della migrazione in italiano(Le Lettere,2006) e i libri per bambini Come un pesce nel diluvio (Sinnos,2008) e L’altracittà (Sinnos 2010).

Traduttrice dal francese, è curatrice tra le altre della raccolta poetica La casa del respiro del poeta cileno francofono Luis Mizòn(La Vita Felice,2008).Svolge attività critica ed editoriale nell’ambito della comparatistica,e in particolare della letteratura della migrazione, è redattrice di diverse riviste letterarie e collabora a” Le Monde diplomatique”,inserto mensile del quotidiano “Il Manifesto”.


[1] Storico marchio italiano di ascensori.

[2] A Giovanni Buridano, filosofo medioevale, è attribuito il paradosso secondo il quale se un asino venisse costretto a scegliere fra due cumuli identici di fieno, nell’incertezza finirebbe per morire di fame.



Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :