Ora non me ne vogliano gli amici trevigiani, ma ho ripensato a questo l’altro giorno, quando su Facebook ho letto alcune reazioni piccate a due righe che avevo scritto al volo, su una bottiglia di Colfondo, prodotta dalle parti dei tropici nordestini. Aprendola avevo sentito un odorino di frutta stramatura e poi di focaccina andata a male. In Facebook, si sa, si usano le iperboli adatte ad una scrittura rapida e sintetica. E io avevo sintetizzato quella sensazione con un’espressione poco scolastica, e forse irriverente: “topo morto”. E, naturalmente, apriti cielo.
Poi mi sono ricordato di quell’estate di tre anni fa. Delle zanzare, della carta moschicida, del Rio Guaiba. Di quel viaggio nel tropico d’Italia. E mi sono detto: questo è il terroir ragazzo mio. E se il vino lo consideriamo come figlio della relazione fra ambiente, uomo e paesaggio, allora ci sta, ci sta anche il topo morto. Senza offesa per alcuno. Nemmeno per sua Maestà il Colfondo e tanto meno per sua Eccellenza Glera. Il terroir è una cosa seria. E il vino ci aiuta a conoscerlo, ci porta per mano, ci educa al paesaggio e all’ambiente.
Questa sera aprirò un’altra di quelle bottiglie-topomorto: magari, pensando al concetto di terroir, immaginando questo vino come il mio compagno per un viaggio tropical tutto italico, quella bottiglia mi piacerà. Chissà.
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