In un articolo apparso di recente sul Washington Post, il giornalista statunitense Ishaan Tharoor ha sollevato un problema importante, già dichiarato nel titolo: Sulla Siria aveva ragione Putin? (Was Putin right about Syria)? La risposta è decisamente affermativa: pur criticando la politica estera del Cremlino per altri motivi (ad esempio, nella gestione della crisi ucraina), l’analista nordamericano riconosce che l’evoluzione degli eventi nel quadrante vicino-orientale ha dimostrato la giustezza della posizione russa nei confronti della guerra civile siriana. Nel 2013, gli USA hanno per poco mancato l’organizzazione di un intervento militare contro Damasco, sostenendo l’opposizione a Bashar Al-Assad con il pretesto dell’uso di armi chimiche da parte del governo contro la popolazione civile che non è mai stata dimostrato con certezza. Soltanto il Presidente russo si opponeva con fermezza all’eventualità dell’attacco, rivolgendosi direttamente al popolo americano con una lettera pubblicata a metà settembre sul New York Times mentre gli Stati europei, Francia in testa, sembravano ben disposti a seguire Washington. Nella sua lettera, Putin criticava non solo l’unilateralismo dell’operazione, ma affrontava anche la dimensione geopolitica della crisi. Il Presidente russo affermava infatti che una guerra contro lo Stato laico di Assad avrebbe comportato il rischio d’una espansione regionale del conflitto (cosa che si è puntualmente verificata, con l’emergere del Califfato tra la Siria e l’Iraq), nonché il possibile rientro di terroristi islamici di provenienza occidentale nei rispettivi Paesi d’origine. Ora tutti possono constatare che questa analisi si è dimostrata molto lungimirante: quale che sia il giudizio sul regime di Bashar al-Assad, è chiaro che la lotta contro il suo governo non è condotta in nome della democrazia, bensì in nome del jihād.
Si può osservare quasi la medesima situazione in Libia: dopo il rovesciamento di Gheddafi (nei confronti del quale la Russia si era parimenti opposta), il Paese sta precipitando nel caos e l’estremismo religioso avanza in maniera sempre più inquietante. Forse, se l’Europa avesse elaborato una strategia coordinata anche in base all’orientamento di Mosca, l’ascesa islamista avrebbe potuto essere evitata o quantomeno fortemente limitata. Eppure è oggettivamente stupefacente il fatto che la maggioranza dei mass media non sottolineino il cambiamento dei propositi statunitensi riguardo la crisi in Siria. Anche se la Casa Bianca afferma di non voler collaborare direttamente con il governo di Damasco, gli USA intendono adesso combattere quegli stessi ribelli che l’anno scorso erano considerati dalla parte giusta del conflitto. La riflessione di Ishaan Tharoor è quindi particolarmente importante perché rappresenta un’eccezione in grado di illuminare anche come la politica estera russa è spesso molto più orientata alla stabilizzazione di quanto gli Occidentali siano disposti ad ammettere.
Il caso dell’estremismo islamico è un esempio assai eloquente di come la stabilità interna della Federazione Russa condizioni anche la sua politica verso l’esterno. Ospitando una consistente comunità islamica nel Caucaso del Nord che non è peraltro estranea all’estremismo religioso, Mosca è sempre costretta ad essere equilibrata nella sua politica estera nei confronti di Paesi musulmani. Proprio per questo un rapporto politicamente più solido con l’UE sarebbe d’interesse comune per far fronte a quel radicalismo islamico che non risparmia gli stessi Europei in virtù della prossimità geografica con il Vicino Oriente e il Nord Africa, nonché per la crescente presenza della popolazione musulmana in Europa. Per fare un esempio, nel mese di agosto 2013 la stampa russa riportava la notizia di un presunto incontro fra Vladimir Putin e il Direttore dei servizi segreti sauditi, durante il quale Riyad avrebbe rivolto a Mosca un vero e proprio ricatto: o accettare il rovesciamento di Assad in Siria, oppure rischiare di essere colpiti da attacchi islamisti sul proprio territorio prima delle Olimpiadi di Soči. La Russia non ha ceduto, seguitando nella sua opposizione all’ipotesi di un attacco occidentale contro Damasco. Ed ecco che a fine dicembre, nella città di Volgograd, due automobombe causano più di 30 morti e 100 feriti. Dopo tale carneficina, Vladimir Putin ha accusato direttamente l’Arabia Saudita di essere responsabile di questi atti terroristici. Cosa si è potuto leggere nei media occidentali riguardo questa tremenda coincidenza tra la minaccia e l’esecuzione degli attacchi? Praticamente nulla: per la stampa euro-americana gli eventi di Volgograd sono piuttosto rientrati nella propaganda anti-russa che stava cominciando proprio allora con l’approssimarsi delle Olimpiadi di Soči.
Se si sfogliano gli articoli giornalistici di quel periodo, ci si accorge facilmente che gli attentati vennero descritti quasi esclusivamente come un simbolo dell’incapacità dei Russi di garantire la sicurezza prima delle Olimpiadi. Non occorre avere molta immaginazione per intuire che la reazione sarebbe stata ben diversa nel caso in cui la violenza avesse colpito una città europea o statunitense, favorendo magari il ritorno in grande stile della teoria dello “scontro di civiltà” tra Islam e Occidente, tanto pericolosa e semplicistica quanto la scelta di rovesciare i governi laici di Gheddafi e Assad e l’ingenuo sostegno alle cosiddette “primavere arabe”. Oggi, allorché il legame tra l’erronea politica verso il Vicino Oriente e il rischio di attacchi terroristici diventa sempre più evidente, i leader europei potrebbero rimpiangere di non aver operato in sinergia con Mosca negli ultimi due anni.
Si può dunque concludere che l’assenza di una seria e argomentata critica riguardo le oscillazioni dell’Occidente verso l’islamismo radicale rappresenta anche un’occasione mancata per migliorare le relazioni tra la Federazione russa e l’Europa. La sfida del terrorismo islamico potrebbe essere infatti un elemento di coesione al fine di migliorare le relazioni bilaterali, nonché per facilitare il dialogo sulla crisi ucraina. Perché dunque i Paesi europei fanno fatica a comprendere che la Russia costituisce un partner fondamentale non solo sul piano economico, ma anche nel campo della politica estera? Da un lato, perché l’eredità ideologica della guerra fredda impedisce ancora l’emergere di una coscienza geopolitica europea: condividendo aree vicine, anzi contigue, Europa e Russia hanno interessi comuni infinitamente superiori a qualsiasi partenariato transatlantico. D’altra parte, la crisi dei valori, la mancanza di un senso di appartenenza patriottico e il malessere sociale che scuotono i Paesi europei sono d’ostacolo ad una corretta comprensione dei cambiamenti storici: l’egemonia occidentale sul pianeta tende a declinare e il mondo si muove verso una prospettiva multipolare. Per prendervi parte, gli Europei dovrebbero prima di tutto essere consapevoli della propria specifica civiltà, cominciando dalla decostruzione quell’identità “occidentale” o “euro-americana” nata dopo la Seconda guerra mondiale e che si dimostra totalmente incapace di offrire una fisionomia culturale adeguata ad affrontare le sfide del XXI secolo.
(Traduzione dal francese di Indriada Ceka)