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Testimoni ed esuli di (in)giustizia

Creato il 17 dicembre 2015 da Annagiuffrida @lentecronista

Sono 83 in Italia gli uomini e le donne che hanno scelto di denunciare i soprusi e la violenza delle mafie. Una piccola comunità di cittadini italiani che dopo avere testimoniato, aprendo così le porte del carcere a tanti esponenti della criminalità, da anni lotta per riavere una vita dignitosa. Vite di cui poco si parla, al punto che i testimoni di giustizia (ex imprenditori, commercianti, o semplici onesti cittadini) vengono spesso confusi con i collaboratori di giustizia (meglio noti come “pentiti”) che provengono dalla malavita e hanno deciso di collaborare con la giustizia.

Cittadini resi invisibili, non tanto e non solo dalla scelta coraggiosa di aver detto No alle mafie ma dalle istituzioni incapaci di attuare la legge 45 del ’91, che prevede tutele per il testimone di giustizia e la sua famiglia e anche il diritto ad un lavoro nella pubblica amministrazione.

“Siamo stati isolati e abbandonati, e questo solo per il contributo che abbiamo dato alla giustizia, per avere reso un pezzo di Italia legale. I risultati ottenuti con le denuncie sono stati importanti: delinquenti sono in carcere e alcune faide sono state stroncate. Ma la denuncia non deve privare i cittadini della dignità e del lavoro. Non si capisce perché scegliendo la strada della legalità si deve rinunciare a questo sacrosanto diritto”. Parla con fermezza e con intatta umanità Maria, che con sua sorella e tutta la sua famiglia venticinque anni fa testimoniò contro la ‘ndrangheta. Furono i primi che con coraggio entrarono nel programma di protezione, quando ancora nessuno denunciava e non si sapeva in cosa consisteva questa ‘nuova vita’. “Siamo stati costretti ad accettare un programma di protezione speciale, e accettarlo significa distruggere il passato e vivere nell’incertezza del presente e del futuro. Le istituzioni non ci avevano detto che la realtà era questa. Nel Nord Italia lo Stato ci avrebbe garantito sicurezza, lavoro e una nuova identità”.

Ma il programma di protezione per questi cittadini si è sempre rivelato un ostacolo alla sopravvivenza. Senza un passato, senza lavoro e spesso trasferiti in altre località, i testimoni di giustizia non ricevono il necessario sostegno per far ripartire la loro seconda vita. Così dopo aver dovuto accettare la fine della loro attività imprenditoriale, che magari era stata oggetto di estorsioni e minacce poi denunciate, si ritrovano a vivere di gesti di carità. E non va meglio a chi decide di uscire dal programma di protezione: per questi testimoni, tali per lo Stato fino al momento della denuncia, si apre spesso una vita di stenti dove mancano anche i soldi per comprare i farmaci. Cittadini trattati dalla politica, trasversalmente e sporadicamente interessata a loro, e dalle istituzioni quasi come una malattia rara, per i quali non ci sono soldi tempo e volontà da investire per costruire le condizioni di vita dovute. Una volontà a cui la Regione Sicilia ha dato seguito, dando un posto di lavoro a 33 testimoni di giustizia siciliani. Una vicenda che ha scatenato le legittime proteste dei testimoni di giustizia-non siciliani, che con sempre maggiore insistenza bussano alle porte del Governo per chiedere un lavoro. “Spero che il Ministro Madia sul lavoro voglia dare quel segnale forte che la Sicilia ha dato. Perché la legge è nazionale e anche perché chi andrà a beneficiare di questa opportunità lavorativa è un pugno di persone, forse al pari dei siciliani come numero” ha spiegato un testimone di giustizia, durante il convegno ‘Adesso Parliamo Noi’ dello scorso 13 novembre a Roma. E ha aggiunto “Così facendo si farebbe una nuova antimafia della pubblica amministrazione. Sarebbe un segnale forte, con il quale lo Stato dice che chi aiuta viene premiato”. Un riconoscimento che lo Stato è solito fare sempre ad eroi che non ci sono più, e che con un impegno concreto invece deve dare a questi uomini e donne che con il loro esempio possono lanciare un messaggio a chi ancora si rifiuta di denunciare.

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Angelo Vaccaro Notte, testimone di giustizia

Cittadini, lavoratori, le cui energie in questi anni sono state spese per far sentire la loro voce e ottenere l’attuazione di diritti fondamentali. Energie e capacità che potrebbero essere reinvestite, valorizzando le capacità di tanti di loro nel gestire un’azienda. “Perché lo Stato non ha pensato che una parte delle imprese che vengono confiscate possa essere affidata proprio a chi contro la criminalità ha speso la vita propria e quella della sua famiglia?” chiede Luigi Coppola, testimone di giustizia campano ed ex imprenditore, al deputato di Fratelli d’Italia Marcello Taglialatela membro della Commissione Antimafia, presente al convegno del mese scorso a Roma. Ma la risposta più concreta arriva da un amministratore giudiziario, che gestisce le cooperative sequestrate a Salvatore Buzzi nell’operazione ‘Mafia Capitale’: “I lavori parlamentari alla Camera hanno ritenuto di non dover accogliere l’emendamento che voleva coinvolgere i testimoni di giustizia come destinatari della gestione di imprese confiscate. E questo secondo me è un grave segnale, perché questo provvedimento è punitivo nei confronti di questi soggetti”.

Questi servitori dello Stato, come lo stesso Coppola in una precedente conferenza disse che andrebbero chiamati i testimoni di giustizia, sono la vera antimafia quella dei fatti. Braccia, testa e impegno che personificano la vera lotta per la legalità, quella che fa paura alle mafie, e che è capace di demolirne il potere. Uomini e donne a cui non solo viene tolta la scorta ‘a scadenza’, ma che nonostante tutto non rinnegano le loro scelte.

Chi ha paura, allora, dei testimoni di giustizia?



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