Franco Guarino, esploratore e reporter, di recente ha visitato Libia, Siria e Turchia: Giacomo Guarini l’ha intervistato per raccogliere le sue impressioni da questi viaggi. Guarino ha cominciato la sua carriera nel campo delle esplorazioni geografiche; fra le numerose spedizioni che lo hanno visto protagonista, si possono ricordare quelle sull’Everest, in Antartide e alle sorgenti del Rio delle Amazzoni e del Nilo. Presto Guarino affiancò alla professione di esploratore quella di reporter, realizzando numerosi reportage, soprattutto per la Rai, su questioni di rilevante interesse globale (mafie internazionali, cambiamenti climatici, etc.). Attualmente continua la sua professione di reporter presso Rai News e fa da consulente per istituzioni internazionali quali le Nazioni Unite.
Giacomo Guarini: Nei mesi scorsi lei è stato in Libia, Turchia e Siria. Scenari – soprattutto il primo e il terzo – particolarmente ‘caldi’ al momento. Vuol cominciare raccontandoci la sua esperienza della Libia (post-)bellica?
Franco Guarino: A mio parere in Libia è stato uno sfacelo. Una rissa insensata a colpi di pistole, cannoni e bombe: si doveva combattere ed abbattere il governo di Gheddafi ma non se ne sapeva l’esatto motivo, ed il vero bandolo della matassa sono stati i soldi, perché la gente che combatteva veniva pagata. Una guerra piombata dall’alto per far entrare le multinazionali del petrolio nel paese. Con un ruolo fondamentale giocato dalla Clinton in questo conflitto e in generale nelle ‘Primavere’.
Pochissimi hanno denunciato una situazione nel conflitto libico ben diversa rispetto a quella descritta dai grandi media. Cosa di diverso lei ha riscontrato nel paese rispetto a quanto diffuso dalla “vulgata” mediatica?
La gente in Libia è disperata e chi prima aveva poco adesso non ha nulla. Questi tipi di ‘rivoluzione’ vengono prima sostenute dalle grandi potenze, poi quando queste hanno ottenuto ciò che vogliono, abbandonano la gente; situazione analoga sta accadendo in Egitto.
Oltretutto i rivoltosi speravano di avere libertà e democrazia senza nemmeno sapere cosa fossero; dicevano “finalmente saremo liberi!”; “liberi di far cosa?” chiedevo io. Ed invece parlando poi con uomini e donne comuni ho sentito pochissime lamentele: “noi stavamo bene”, “eravamo tranquilli”, mi sentivo spesso dire.
Fra l’altro anche dati ONU riportano un indice di sviluppo umano per il paese, fino a prima dell’inizio del conflitto, molto alto se messo a confronto con i vicini regionali e con l’intero continente.
Basti pensare che l’istruzione è gratuita, così come la sanità ed altro ancora.
Teme che tutto questo verrà meno con i rivolgimenti in corso?
Certo. Si tratta di una guerra persa da tutti i libici, e questi non ne hanno ancora piena cognizione. Una guerra persa per mano di coloro che hanno istigato al conflitto, allevati da Inghilterra, Francia, America: coloro che hanno guidato i famosi ‘ribelli’, erano infatti in gran parte dei provocatori professionisti. Un discorso analogo vale per Tunisia ed Egitto.
Oltretutto, nel contesto libico abbiamo visto emergere jihadisti ‘di professione’, gente che si è distinta nell’Iraq e nell’Afghanistan occupati. Nemici acerrimi di quel ‘Occidente’ col quale ora si ritrovano a convergere…
Sono dei mercenari, in realtà. Una cosa importante da dire è che in Libia ho potuto assistere a scene di violenza bestiale. Il modo di ammazzare la gente lì ha scioccato molti colleghi giornalisti non consapevoli di quelle realtà. Il sangue ha anche un odore, che non si sente dalla televisione, e quando sei lì e vedi strazianti scene di sangue e di pianto, certi problemi da noi molto temuti come fame e miseria passano in secondo piano. E se le ferite possono guarire, i traumi di chi ha vissuto certe atrocità restano. Tutto questo a causa dell’abbaglio di democrazia e libertà, in Libia come altrove; non credo, fra l’altro, che i nostri stessi paesi possano considerarsi liberi e democratici e tantomeno legittimati ad esportare democrazia.
Da reporter professionista come giudica la gestione dell’informazione sulla Libia? E’ evidente che certi crimini commessi dai ribelli sono emersi solo mesi dopo e solo in sordina, mentre sono state diffuse voci infondate su presunti crimini attribuiti alle forze governative (bombardamenti sulla folla, stupri di massa con ausilio di viagra, etc.).
Anzitutto diciamo che il giornalismo non esiste più. Esiste l’informazione come arma di guerra: se si vuole invadere un paese, si prepara l’informazione assieme agli armamenti.
Le notizie di crimini governativi a cui si riferisce fanno parte della propaganda di guerra e sono state diffuse per giustificare le atrocità commesse dai ‘liberatori’, mentre i reporter inviati partono con i servizi già scritti in partenza: dicono quello che il caporedattore chiede che venga detto. E spesso lo fanno senza muoversi dall’albergo in cui risiedono…
Si pensi infatti che la guerra in Afghanistan è stata coperta dall’Holiday Inn di Islamabad! Quella irachena dal Hotel Rashid, etc. Inviati che spesso si limitano a guardare cento metri a destra e cento a sinistra e si mettono un po’ in mostra sotto una palma, seguendo in pratica la guerra dalle suite, mentre le notizie gli arrivano dall’Europa o dall’America.
Lei ha realizzato inchieste sugli effetti letali dell’uranio impoverito sulla popolazione irachena. Ritiene concreto il pericolo di questo tipo di danni in Libia?
Certamente. Armamenti all’uranio impoverito sono ordinari in questi conflitti e credo che i postumi della disinformazione continueranno: non troverà spazio chi vorrà seriamente denunciarne gli effetti sui civili.
Lei è stato anche in Romania nei giorni della ‘rivoluzione’ che ha deposto Ceausescu. Forse il paragone con la crisi libica può venir spontaneo, visto che allora in Romania assistemmo a moltiplicazioni di zeri nelle cifre dei morti, a cadaveri riesumati e assurti post mortem a vittime della repressione, etc.
Esattamente. Nel ‘89 sono stato nei vari paesi attraversati dai rivolgimenti in Europa orientale. Giunsi in Romania prima dell’inizio dei disordini, perché avevo l’impressione che anche lì sarebbe successo qualcosa ed ero a Timisoara il giorno prima della rivoluzione, quando andai anche a scovare la ‘scintilla’ della stessa. Ceausescu era in realtà abbastanza amato dalla popolazione perché ne garantiva almeno in parte i bisogni sociali. Ma siccome non accettava il controllo del F.M.I., non poteva essere di conseguenza ricattato, e quindi si decise di farlo fuori, eliminandolo fisicamente in quanto scomodo testimone. Come fatto anche con altri leader nazionali e per ultimo con Gheddafi.
Fra l’altro, attualmente la popolazione rumena è in difficoltà, il malcontento cresce nel paese e non è insolito sentire voci nostalgiche del deposto regime.
Cosa ci dice invece sulla Siria, essendovi stato di recente?
Diciamo intanto che la Russia ha interessi evidenti in Siria. Toccare la Siria vuol dire toccare la Russia, e per questo secondo me si è già giunti ad un accordo per escludere l’intervento militare.
E riguardo invece ai disordini in corso?
Anche qui abbiamo spesso a che fare con provocatori prezzolati. Si tratta di una minoranza, il cui operato viene amplificato con l’uso di videofonini e simili e con la diffusione di video spesso manipolati. Costoro sono finanziati da potenze straniere e per quel che ho potuto constatare mettono prima le famiglie in salvo in Turchia nei campi profughi, per poi agire per la destabilizzazione del paese.
Se i ribelli sono una minoranza, come vive il resto del paese?
La gente continua serenamente a svolgere le proprie attività quotidiane ma teme il futuro incerto che potrebbe derivare dai rivolgimenti. A me comunque interessa l’analisi a monte e a valle; intendo dire che per me è importante muovermi anche fra la gente comune, mentre un ricorrente errore dei giornalisti inviati è cercare solo le situazioni estreme, e così per loro se in un paese di venti milioni di abitanti – ammettiamo – un milione protesta, i restanti diciannove non fanno notizia.
Al riguardo vorrei fare un esempio che ci riporta alla mia esperienza in Romania nel ’89. Spesso nei villaggi in cui mi recavo, sono stato io il primo a dare notizia che c’era stata la rivoluzione e Ceausescu era morto: e vidi in certi casi la gente che piangeva! Non era stata una rivoluzione della Romania, ma la rivoluzione di Timisoara e Bucarest.
Tornando all’area di crisi Mediterranea si è ipotizzato che fra i motivi che hanno spinto gli USA a sostenere le rivolte, anche in paesi ‘amici’, vi sia il tentativo di creare problemi alla emergente presenza cinese in quest’area vitale del globo.
Diciamo anzitutto che nell’area vi sono forti interessi legati al controllo delle pipelines e di aree strategiche. In questo terrei in grande considerazione anche il ruolo di Israele, nonostante la sua posizione defilata nei disordini in corso. Anche nell’Iraq post-bellico ho visto all’opera businessmen israeliani impegnati in massicci acquisti ed investimenti a tutto campo nel paese, settore energetico compreso.
Riguardo alla Cina, è indubbia la crescita della sua presenza nell’area, non a caso sto dedicando un lavoro a Rai News 24 intitolato “Il Mediterraneo si tinge di giallo”. Ma non credo alla possibilità di sbarrare il passo alla Cina; forse qualche anno fa poteva avere senso, ma oramai les jeux son faits.
Una curiosità sulla Cina: nella sua professione di reporter lei è stato uno dei pochi giornalisti occidentali – forse l’unico – a documentare le vicende di piazza Tienanmen dall’interno della piazza stessa, la notte del 3 giugno del 1989. Già in passato lei ha avuto modo di dare pubblicamente una versione dei fatti molto diversa da quella circolata da noi in questi anni. Adesso la “vulgata” è stata smentita in parte anche da Wikileaks: non vi fu spargimento di sangue dentro la piazza bensì fuori, fra le vie che conducevano alla piazza stessa.
Tutta la protesta nacque dalla morte di Yaobang, esponente riformista del Partito. Ma come si arrivò alla protesta di massa? Un certo ruolo lo ha giocato la CIA che, con infiltrazioni all’Università di Beida, eccitò l’animo di alcuni studenti per arrivare ad una mobilitazione generale. E non si dovrebbe trascurare nemmeno il ruolo dei giornalisti della CNN; allo scoppiare dei disordini di Tienanmen loro avevano già predisposto l’attrezzatura sui palazzi perché sapevano quello che doveva succedere.
Le violenze avvennero effettivamente fuori dalla piazza ma il loro numero è stato ingigantito dai media, che aggiungono sempre in questi casi qualche zero alle cifre. E in ogni caso le violenze di Tienanmen sono un fatto che oramai si dimentica volentieri per questioni di business.
Da alcuni anni si parla di Cina come potenza che emerge con decisione nello scenario internazionale. Un tale dibattere riguardo al gigante giallo si è però sviluppato con intensità solo col nuovo secolo o al più negli anni ’90 del precedente. Lei che è stato spesso in Cina anche nei decenni precedenti avrà avuto modo di percepire già allora le potenzialità di questo paese, come sembra aver dimostrato anche nei lavori di reportage che vi ha dedicato. E’ così?
Sì, ho fatto il mio primo reportage sulla Cina nel ’82. Già allora erano evidenti i grandi cambiamenti promossi da Deng Xiaoping e lo sono stati in misura crescente negli anni successivi. Il proliferare di industrie ed infrastrutture mi fece apparire con evidenza che quello era il paese dei grandi numeri e che il progetto di modernizzazione di Deng Xiaoping stava effettivamente portando i suoi frutti, concretizzando la sua famosa massima “Non importa se il gatto sia nero o bianco, purché acchiappi il topo”, segno del mutamento di strategia nel paese. Mao invece restava un simbolo il cui merito era stato aver messo quasi un miliardo di persone sotto la stessa bandiera e aver garantito “la ciotola di riso”.
Lei ha seguito le tratte della droga in America, in Europa ed in Asia. Riguardo a questo delicato settore vorrei chiederle qualcosa sull’Afghanistan, paese che ha visitato più volte e che è oggi il cuore della produzione mondiale di oppio.Se guardiamo all’Afghanistan, la prima cosa da dire è che il traffico d’eroina è stato foraggiato e strumentalizzato dagli americani sin dal ’79 per produrre finanziamenti con cui sostenere la lotta contro sovietici.
Vorrei focalizzare però l’attenzione sulla fatwa del Mullah Omar che nel 2000 ha proibito con successo la produzione di oppio (dati ONU confermano un calo di più del 90% della produzione); con la guerra del 2001 però la produzione nel paese arriverà presto a livelli anche superiori a quelli ‘pre-fatwa’. Come commenta questa particolare vicenda?
L’editto del Mullah Omar ebbe successo e la produzione venne abbattuta. Si giunse ad un accordo con le Nazioni Unite per il quale i contadini avrebbero ricevuto per l’anno successivo proventi comunque pari a quelli derivanti dalla vendita del raccolto di oppio, se si fossero astenuti dal dedicarsi a questo tipo di coltivazioni. Io stesso prestai servizio per le Nazioni Unite fotografando i campi e verificando che non si stesse procedendo alla coltivazione dei papaveri. Al momento del raccolto, verso marzo-aprile, i contadini aspettavano i contributi come d’accordo, ma questi non arrivarono. Come mai? Perché era sorta la questione dei diritti umani in Afghanistan, del burqa e via dicendo. Alla riunione di Ginevra alla quale doveva confermarsi lo stanziamento dei fondi, due persone su venti si opposero perché – si disse – “non bisogna dare soldi ai talebani”. L’argomentazione, motivata come una questione di human rights, convinse l’intero consesso e non se ne fece più nulla. E così dall’anno successivo la produzione in Afghanistan riprese con cifre da record.
Comunque in generale il traffico di droga fa parte di torbidi affari che si sposano con il traffico d’armi e con le ‘rivoluzioni’ in giro per il mondo. L’importante è depositarne i proventi nelle banche americane, meglio se a Miami.
Un’ultima domanda: i diritti umani sono un tema di grande interesse e dibattito oggigiorno; vediamo anche che purtroppo questi vengono spesso strumentalizzati per giustificare e condurre rovinose guerre ‘umanitarie’. Lei – che in questi decenni di viaggi ha visto e conosciuto i gruppi umani più svariati – non trova che per tante realtà culturali, così lontane dalla nostra, possa essere spesso percepita come violenza l’imposizione di una concezione dei diritti umani strettamente ancorata a certe sensibilità filosofico-culturali prettamente ‘occidentali’?
Certamente. Per esempio in Afghanistan è subìta come violenza, perché certi equilibri sociali consolidati vengono sconvolti d’improvviso da modelli culturali imposti dalle forze occupanti, anche attraverso – laddove possibile – la televisione. Poi c’è ad esempio l’azione di certe operatrici umanitarie che, inviate per dare sostegno pratico alle donne del posto, inculcano loro idee emancipatrici e liberali che però non fanno che creare fratture in seno al sistema sociale e familiare di quei posti.
Più in generale nel mondo accade che sempre più profondamente vengano sconvolti equilibri anche millenari mediante una guerra culturale. Un conto sono i diritti umani ma spesso in questi casi i messaggi propagandati vertono sull’edonismo e cercano di attecchire in società dove questo non esiste e dove soddisfare certi bisogni indotti vuol dire comprare meno pane per sfamarsi; si illude quindi la gente mostrandole modelli di vita che non potrà permettersi, non facendo altro che sfasciare le famiglie ed il tessuto sociale di questi paesi. Una tale invasione culturale è quindi forse la peggiore guerra in corso; vi è chi la sostiene con cognizione di causa e quindi in malafede, ma molti sono invece in buona fede e convinti di far del bene. Che dire poi dei doppi parametri di valutazione? Perché si parla a gran voce delle donne afghane invece che del sistema delle caste indiano? Si tratta di scelte politiche alle quali i giornalisti, volenti o nolenti, si prestano.