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Anthony perde il figlio in circostanze misteriose, ed inizia ad essere tormentato dai rimorsi: presto una misteriosa mutazione inizierà a manifestarsi nel suo corpo…
Dopo Tetsuo – The iron man - ineguagliato capolavoro fanta-horror low-budget, girato in bianco e nero con ampio uso del “passo uno” – e l’interessante Tetsuo 2 – Body Hammer, Tsukamoto torna sugli schermi a chiudere il cerchio (è proprio il caso di scrivere) proponendo un lavoro di livello qualitativo inedito: per la prima volta gira tutto in inglese, ed è facile accorgersi di come i mezzi visivi siano decisamente superiori ai succitati lavori. Merito, a ben vedere, di una fama giustamente acquisita da parte del pubblico di appassionati, che vedrà finalmente soddisfatti sia i propri desideri di vedere un film di questo tipo senza troppi sperimentalismi che parte dei propri interrogativi più pressanti (su tutti: l’origine della contaminazione uomo-metallo). Girando con il consueto stile convulso – molti scriverebbero “da videoclip” – il regista rinuncia alle contorsioni visuali dei precedenti capitoli e propone un lavoro visionabile senza necessariamente conoscere i precedenti, ai quali pero’ va sempre dato atto di una enorme importanza al fine di comprendere appieno, a mio avviso, l’intero senso della filosofia cyberpunk di Tsukamoto. Un modo di proporre intreccio e desolanti panorami urbani, contaminati dal ferro e dai circuiti, che sembra voler denunciare l’alienazione più totale dell’uomo moderno in termini lavorativi e, direi soprattutto, sentimentali. Questo viene sviluppato in poco più di un’ora di film, culminando in un finale delirante che apre le porte ad un’inattesa (per Tsukamoto) voglia di rinascita, una sorta di reset totale dell’umanità molto lontano, a bene vedere, dal devastante “Game over” del capitolo iniziale. Molti i punti di contatto con i precedenti lavori, dunque: lo sviluppo della trama a partire da un episodio casuale ed imprevedibile, la presenza di un malvagio antagonista non troppo dissimile da Anthony, la coppia minata nelle proprie certezze dalla contaminazione della carne umana col metallo (il che coincide, a ben vedere, con l’esplosione di rabbia del protagonista e, generalizzando, del genere umano in toto). E poi alcuni immancabili auto-citazioni, come l’impiegato frustrato che da’ calci al muro (espressione, secondo il regista, della mancanza di garanzie nella vita dei “colletti bianchi”, privati della propria esistenza per servire la causa “industriale”). Un buon film di fantascienza che si rende relativamente accessibile anche ai meno avvezzi ai prodigi non lineari di certo cinema di genere, senza quindi sconfinare nella paranoia fine a se stessa nè negli sperimentalismi un po’ scialbi alla Begotten: da vedere, anche se – senza fare troppo i pignoli – potrebbero esservi bastati i due precedenti episodi.