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Entrando nello specifico, The Afterman, il cui titolo avrebbe potuto tranquillamente essere The Aftermankind, racconta di un uomo che per molto tempo sembra aver vissuto all’interno di un rifugio atomico dove si accontentava di piccole cose, tipo mangiare vermi e fare sesso con il corpo ibernato di una donna, ma a causa di un problema interno la base implode su stessa e l’uomo senza nome si trova a vagare in un mondo post-umano, appunto.
Sperando di non incappare in una sovrainterpretazione, il procedimento con cui il film si svela ha continue forme archetipiche poiché, tanto per cominciare, l’intera opera è priva di dialoghi e l’assenza dialogica trasporta ad una condizione dell’uomo vicina a quella primitiva fatta di istinto e bestialità. Paradigmatico il fatto che quando il protagonista incontra un altro gruppo di suoi simili con i quali ha inizialmente atteggiamenti di fraternità, essi per tutta risposta se lo inculano a turno. Tramite una scena così di impatto il regista vuole spiegare quanto la nostra razza abbia toccato il fondo, ed è un’analisi che tange un’altra nicchia di umanità come la religione, dove in un monastero i sacerdoti sfruttano delle ragazze e strappano cuori come se fossero bigliettini dal panificio, a testimonianza di una civiltà completamente allo sbando dove il sesso e il nutrimento per sopravvivere (vedremo pezzi di carne cruda strappati a morsi) scavalcano qualunque sentimento plausibilmente situato nel nostro organo vitale.
Purtroppo, ed un purtroppo di proporzioni ciclopiche, The Afterman che a un livello concettuale potrebbe avere dell’humus su cui ragionare, crolla impietosamente sul piano formale. Aldilà del budget ridotto e delle conseguenti ambientazioni che nulla hanno di post-atomico (teoricamente ci sarebbe la possibilità che il tempo passato dall’attacco nucleare sia molto, tuttavia vedere prati rigogliosi, contadini che seminano la terra, e cieli azzurri stona di parecchio), aldilà di questo, ci troviamo di fronte ad un film che si inserisce nella categoria di genere e qui vi si impantana. L’ostentato voyeurismo con cui Van Eyck conduce il lungometraggio lo porta in territori molto vicini al trash italico di, con tutto il rispetto, un Massaccesi o un Polselli; l’insistenza sul sesso, sulla nudità, sul corpo, che ha l’apice di idiozia nella scena della piscina, spesso – praticamente sempre – superfluo nel racconto e in odore (/puzza) di forzatura, ammorba l’opera in tutto il suo essere. Si può passare sopra alle scenografie, alle goffe azzuffate e agli effetti ben poco speciali, ma non ad un compiacimento così palese che rende aridissima una storia con del potenziale.
Il finale idilliaco che ricorda quello di The Road (2009) oltre che per i significati (la sopravvivenza della speranza con la nascita di un figlio) anche per l’ambientazione marina laddove il mare sembra essere sempre nel genere post-apocalittico la meta del viaggio – ma le assonanze col film di Hillcoat sono rinvenibile anche nella rappresentazione dell’archetipo (!) dell’amore fra l’uomo e la donna, due cerini in un mondo di cenere ricordate? -, sancisce la chiusura di quello che è semplicisticamente un b-movie con qualche piccolo vezzo autoriale (il mutismo). Ciò che resta è “un fascino del brutto” che nonostante le cadute di stile vi farà arrivare in fondo, non so con quanto soddisfazione però.
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[1] Pare che fino a quel momento circolassero solo copie in vhs e raramente oltre i confini del Belgio.
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