Dopo l’uscita dell’EP All delighted people si era tornati a parlare in toni entusiastici di Sufjan Stevens. Gli ultimi lavori avevano lasciato un po’ il tempo che trovavano, mentre All deligheted people aveva ricordato per qualità e musicalità i grandi album che lo avevano reso famoso e stimato. Ma già alla sua uscita si parlava del nuovo disco, della svolta elettronica di Stevens. Da oggi è possibile ascoltare in streaming l’intero disco, in uscita il 12 ottobre: The age of adz. La svolta c’è stata, e lascia esterrefatti e ammaliati per la bellezza di questo lavoro; forse proprio per la diversità dal precedente EP, per il territorio sconosciuto -almeno all’autore- nel quale si è avventurato: l’elettronica. Abituati come eravamo a quel folk orchestrale così originale e innovativo, immaginarci un Sufjan Stevens in stile Amnesiac un po’ spaventava. Non si era ancora infatti certi della sua completa guarigione compositiva. Ci si domandava, cioé, se All delighted people fosse l’ultimo colpo di coda di una creatività ormai scivolata via, o fosse un nuovo inizio di un grande artista che si era un po’ perso per strada. Cercare e trovare la conferma in una svolta musicale e stilistica non è facile. Eppure Sufjan Stevens ci è riuscito alla grande. Tanto quasi da far pensare che non di una svolta si parla, bensì della dimostrazione delle immense capacità e potenzialità di questo musicista assolutamente unico e imperdibile, che con questo lavoro è riuscito a sbaragliare il tavolo delle sonorità eppure a richiamare sempre e costantemente le sue radici folk, come solo lui probabilmente è in grado di fare. Il disco si apre con armonie a cui si era abituati, ma dalla seconda traccia la musica cambia, letteralmente. Inizia un viaggio elettronico, di altissima qualità. Le sensazioni sono numerose, variegate, alternate. Come sempre la musica di Sufjan Stevens non è mai scarna, ma piena, colma di suoni, orchestrale. E lo è anche in questo contenso, elettronico, elettrico. A volte si ha la sensazione di camminare in una cattedrale postmoderna, mentre musica industriale ritma sincopata, una banda robotizzata marcia allucinata, e una voce celestiale -la sua, in falsetto, marchio di fabbrica- canta invece dolce e soave. Musica liquida, densa, elettrica dove la dolcezza e la tristezza di fondono in una crema metallica, armonica, avvolgente. E’ un crescendo difficile da descrivere, a cui è impossibile resistere. Sufjan sembra comprendere lo smarrimento che potrebbe sorprendere un suo abituale ascoltatore e lentamente, lungo tutta la tracklist, lo accompagna in questo nuovo territorio dove alle reminiscenze naturalistiche del folk si sostituiscono le fredde architetture dell’elettronica. Cresce di intensità e in qualità, fino a quando si manifesta in tutta la sua grandezza in quello che forse è il pezzo migliore: Vesuvius. Come fosse una chiave di volta, come se attraverso quel brano si riuscisse ad entrare definitivamente nell’album, per non volerne più uscire, Sufjan calca la mano. Dopo Vesuvius gli ultimi brani sono entusiasmanti. Da segnalare, oltre a Vesuvius, anche I want to be well, il cui ritmo incalzante, elettronico, dolcissimo, celestiale concede nel finale l’orchestralità che solo Sufjan Stevens sa mettere in campo, entusiasmando oltre ogni modo. L’ultimo brano -che supera abbondantemente i venti minuti- è una suite quasi progressive. Ma più che progressive è una summa di tutti brani precedenti, in cui ritroviamo le nuove sonorità padroneggiate alla grande da Stevens, e al termine, così come era iniziato, ci concede ad libitum le armonie con cui abbiamo imparato ad amarlo. Questo disco, anche alla luce dell’EP appena precedente, è la dimostrazione lampante -se ancora ve ne fosse bisogno- della grandezza di Sufjan Stevens musicista e compositore geniale, ormai, a diritto, nei grandissimi di questo tempo.