THE AMAZING SPIDER-MAN (Usa 2012)
L’importante, in questi casi, è non farsi prendere dalla nostalgia: il primo film della trilogia di Spider-Man diretta da Sam Raimi uscì esattamente dieci anni fa, nel 2002, seguìto dagli altri due episodi nel 2004 e nel 2007. Non starò ad annoiarvi con discorsi su quanto sia affezionato a quei film, su quanto mi piacque il Peter Parker interpretato da Tobey Maguire, su quanto mi innamorai di Kirsten Dunst nei panni di Mary-Jane Watson e via dicendo. No, niente nostalgia: ogni pellicola va vista e giudicata in sé e per sé, non in relazione a quelle che sono venute prima. Una domanda, però, sì, quella concedetemela: perché? Ovvero: che bisogno c’era di ricominciare a raccontare da capo una storia che è stata portata sullo schermo nemmeno troppo tempo fa? Voglio dire, la mia generazione avrà anche qualche capello bianco in più rispetto al 2002, e magari siamo passati dallo status di studenti a quello di lavoratori o disoccupati, ma siamo pur sempre più o meno dei giovincelli. Operazioni di questo genere hanno senso quando le novità tecnologiche intercorse in ambito cinematografico in un determinato periodo di tempo permettono un totale stravolgimento della pellicola, arricchendola con effetti speciali prima inimmaginabili, oppure quando le caratteristiche del film sono così radicalmente diverse a livello di registri e contenuti da risultare completamente sradicate dal contesto originale – ma anche in questo caso ci vuole tempo. Ecco perché i Batman di Christopher Nolan (2005, 2008, 2012; quelli di Tim Burton erano usciti nel 1989 e nel 1992, gli altri non li prendo nemmeno in considerazione) hanno un senso che stento trovare in questo The amazing Spider-Man di Marc Webb, reboot troppo vicino dal punto di vista cronologico e contenutistico ai film di Raimi per risultare davvero originale e interessante.
Ma veniamo al film. Che, c’è da dire, non è proprio un granché. La storia è quella che più o meno tutti conosciamo: Peter (qui interpretato da quella faccia da schiaffi di Andrew Garfield, già in The social network e Non lasciarmi) è uno sfigato che vive con gli zii e che un giorno viene morso da un ragno geneticamente modificato, acquisendo superpoteri in forza e agilità. Lo zio viene ucciso, un supercattivo minaccia la città e così via, verso un finale che vede il trionfo dell’amore, la sconfitta del mostro e la vicenda aperta ad altri ennesimi episodi.
Detto in soldoni: se anche le scene d’azione non sono male (sul grande schermo Webb è quasi un esordiente, ma già in (500) giorni insieme aveva dimostrato di saperci fare), sebbene alla lunga, come sempre in questi casi, risultino stucchevoli e prevedibili, a livello di sceneggiatura questo film sembra scritto da un bambino di dodici anni: improbabili passaggi logico-narrativi, dialoghi ridicoli, evoluzione psicologica dei personaggi tagliata col coltello… Insomma, in The amazing Spider-Man quando si parla son dolori – difetto non da poco per un film, ne converrete, limite grosso come una casa che conduce a un inevitabile minor grado di coinvolgimento tra spettatore e personaggio: laddove il Parker di Raimi era tormentato, triste e perseguitato dalla sorte, quello di Webb risulta solo un po’ stronzo e menefreghista; laddove Mary-Jane era drammaticamente complessa e tridimensionale, Gwen Stacy (interpretata da Emma Stone) è inutilmente decorativa e dall’innamoramento decisamente troppo facile; per non parlare del cattivo Curt Connors/Lizard: vabbé che a dargli le fattezze è il grande Rhys Ifans, ma la sua profondità psicologica è pari a quella di Fred Flintstone (tanto per fare un nome citato anche nel film). Norman Osborn interpretato da Willem Dafoe era decisamente un’altra cosa.
Per carità, The amazing Spider-Man si fa anche guardare (a Hollywood non è consentito confezionare film “brutti” con budget di questo genere, specialmente da quando Autori con la A maiuscola come i già citati Raimi e Nolan hanno alzato l’asticella qualitativa dei superhero movie), ma si tratta di una pellicola assolutamente e inguaribilmente prescindibile, figlia di un’evidente difficoltà del cinema commerciale americano di trovare storie nuove e originali.
Alberto Gallo