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Così nasce The Amazing Spider-Man (2012): per me, che non frequento i fumetti e anzi mi trovo più a mio agio con i paludati eroi dell'antichità che con i fiammanti supereroi metropolitani del '900, è un capolavoro del genere, con piccoli diamanti come la deliziosa, brevissima scena in biblioteca (provare per credere), forse la più esemplare e appassionata furbizia narrativa del film (anche in termini di citazionismo). Ho trovato questo film in 3D di Marc Webb una scossa, una sfida all'emotività dello spettatore. La storia della nascita dell'Uomo Ragno è stata riscritta da capo nella trama e nell'essenza da James Vanderbilt, Alvin Sargent (già coautore nella vecchia serie) e Steve Kloves (uno degli sceneggiatori della saga di Harry Potter), senza paura di irritare i fan della Marvel o dei due creatori del personaggio, Stan Lee e Steve Ditko.
Il risultato è un film davvero amazing, stupefacente. Il film punta molto sul tono tragico, soprattutto nell'incipit rapido, con i tempi di un thriller, e nella morte dello zio Ben (Martin Sheen), che abbiamo avuto il tempo di conoscere e amare (insieme all'adorabile zia May di Sally Field). Ma è il goffo adolescente Peter Parker di Andrew Garfield a spadroneggiare e dare il ritmo alla vicenda: il ragazzo ha un viso espressivo, capace di stringersi in smorfie di dolore o di gioia ferina (penso a quando scopre e vuol padroneggiare i suoi poteri), è alto e slanciato, ma sa ingobbirsi sotto il peso della propria insufficienza. Per altro, sa mimettizzarsi tra gli altri suoi coetanei, nelle sue passioni adolescenziali, ivi compresi i giochi con il cellulare e l'informatica di consumo. Risulta persino simpatico nel suo essere più bravo e più intelligente di altri, perché non appesantito da sterile pedanteria nelle sue conoscenze scientifiche.
Perché questa è la cifra di The Amazing Spider-Man di Marc Webb: la rinuncia pressoché totale a un'aura di mitologia, al mistero, e una dedizione totale al demone scientifico, una spiritualità dei numeri e delle formule. Pasticciando un po' nei retrobottega dell'incultura scientifica - che nessun programma divulgativo a largo raggio può sanare - emergono progetti genetici di ricostruzione di un corpo più forte e funzionale per l'uomo, ma non un corpo umano. Questo è lo slogan del Dr. Curt Connors (Rhys Ifans), problema etico ambulante: superbo luminare ossessionato dalla debolezza dell'uomo, abbagliato dalla brama di qualcosa che sia più che umano e che non sia più necessariamente umano.
Il sovraumano ha smarrito il senso della vita: questa si riduce a un atto di ricombinazione del DNA. L'obiettivo non è l'eccellenza, come nell'eugenetica preventiva in Gattaca di Andrew Niccol, ma l'abbattimento in corso d'opera di ciò che nell'uomo è un limite. Parallelo e speculare, il razionalismo della polizia, inadeguata di fronte alle forze distruttive che si scatenano in città, nonostante la sicumera del capitano Stacy (Denis Leary). In The Amazing Spider-Man manca proprio la meraviglia degli uomini e per gli uomini, se ne appiattisce la vita in termini di dominio e sudditanza, e la mobilitazione, anche quando epica e toccante (come la scena delle gru), avviene solo a vantaggio di una sfera che, pur avendo smarrito il senso dell'umano, ne individua e seleziona i valori di coraggio e solidarietà. Per questo è ancora più pregevole il correttivo del ragazzino viziato a furia di elettronica, per non parlare della relazione con la bella Gwen (Emma Stone) che, per quanto codificatissima secondo i dettami della commedia americana di liceali, restituisce vita, umori ed equilibrio a un film di supereroi.
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