Non è una sorpresa che in questo inizio 2012 segnato da recessione e pessimismi, un’idea brillante come The Artist continui a mietere premi e consensi. Il film, piacevole e leggero, per certi tratti irresistibile, elogio di un cinema monocromo e silenzioso nell’era del surround sound e del 3D, continua a guadagnare inesorabilmente terreno verso gli Academy Awards. Ieri, la pellicola di Michel Hazanavicius si è portata a casa ben sette premi Bafta, l’equivalente britannico degli oscar, come miglior film, miglior regista, miglior sceneggiatura originale, miglior musica, miglior cinematografia e migliori costumi, nonché miglior attore protagonista. E’ innegabile che Jean Dujardin, assieme al fedele cagnolino Uggie, abbia regalato una performance impeccabile, nei panni del divo del muto caduto in disgrazia e salvato dall’amore. Merito del baffetto retrò, di un sorriso e di una mimica eloquenti, di galanterie fin de siecle, ma anche di una spalla canina, che priva di voce, assurge a ruolo di grande attore co-protagonista. Il film ammalia il pubblico, nonostante l’obsoleto formato Academy standard, rifacendosi alla leggerezza di ruoli e trame in voga negli anni trenta. Un periodo, quello dell’avvento del sonoro, segnato da povertà, crolli di borse, recessioni e delinquenza e, per questo, emotivamente vicino al nostro. Non è un caso che i cappellini a cloche e gli abitini flapper di Beatrice Bejo-Peppy Miller non si rivelino molto dissimili da quelli che oggi ammiccano qua e là dalle vetrine di Kings’ Road o di altri templi dello shopping nel vecchio continente. Mi ha divertito molto la chiave ironica con cui The Artist affronta quello che deve essere stato un vero dramma per tanti artisti del cinema muto, incapaci di riciclarsi nel sonoro. L’avvento dei primi talkies, con il successo incredibile di The Jazz Singer (1927), diede vita ad un fenomeno globale, su le cui ali volarono alte ed audaci, persino in Europa, le trovate geniali e acusmatiche di tanti pionieri, come Fritz Lang o René Clair. Tuttavia, la lista di divi e dive uccisi dal sonoro è più lunga di quello che si crede. Basti pensare a Douglas Fairbanks, a cui Dujardin rifà il verso, o alla divina Louise Brooks. Hazanavicius ha studiato il cinema degli anni venti e trenta e si gioca molto bene le sue carte, tentando la ricostruzione di un mondo che non esiste più. Impresa non facile, nonostante la cura maniacale dei particolari, dalle acconciature, ai vestiti, dalle automobili, agli arredi. Nonostante le citazioni di cui il film è intessuto qua e là, e che faranno la gioia del cinefilo, anche se è impossibile ricreare la magia e la vibrante carica espressiva di un mondo in cui, tra il bianco e il nero, esisteva una ricca gamma di mezzitoni, la storia di The Artist, lieve e nostalgica, mai volgare, risponde ad un desiderio del pubblico che è sempre attuale, quello di evadere per un paio d’ore dalla realtà e dagli affanni del quotidiano. Riuscire a farlo attraverso un mondo di celluloide stilisticamente asincrono, scevro di effetti speciali e di comunicazione verbale, è meritevole di attenzione e, come nel caso dei Bafta, di premi.
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