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Accaparratosi il Leone d’Oro nel 2003, l’impronunciabile Zvyagintsev riprova la fortuna quattro anni dopo in Costa Azzurra con questo Izgnanie. Buco nell’acqua perché il film non piace granché alla critica e non trova distribuzione in territorio nostrano. Complice la durata, 157 minuti, e l’esecrabile quanto palese esercizio stilistico imperterrito e duraturo, sono comprensibili le obiezioni portate a The Banishment. Di tutto il male che però si può dire di questo film, si erge da par suo una bellezza estetica straordinaria che si esprime nei colori della natura raramente così vividi in un’opera cinematografica. La cornice bucolica stravince anche in questo caso, se poi a maneggiare la mdp c’è un autore come Zvyagintsev che sa il fatto suo, almeno sul piano visivo sappiamo che non resteremo delusi.
Ad onta di ottimi momenti angosciosi in cui aleggia un velo misterioso che si lega a Il ritorno (2003), persiste l’impressione che il dilatamento del tempo filmico nasconda un plot tutto sommato esile, che rischia di esaurirsi con il colpo di scena centrale. Il lungo flashback conclusivo che rivolta il senso della storia è un accorgimento particolare che deposita dubbi su dubbi ai quali la giustificazione della moglie in merito alla gravidanza (“è figlio di Alex ma allo stesso tempo non lo è”) non riesce a dare una risposta convincente; nemmeno il suo disagio esistenziale che traspare nei rapporti con la piccola figlia, e soprattutto col marito, giustifica in toto il parziale disconoscimento del bimbo che porta in grembo.
L’indeterminatezza regna. C’è una spessa coltre che Zvyagintsev pone su tutti i personaggi del film rendendoli esseri quasi spirituali, martiri terreni, icone in cui riverbera il sacro. Ovviamente spicca la figura del padre, l’ottimo Konstantin Lavronenko, che come per Vozvrashchenie sembra un fantasma inquieto prigioniero di se stesso. Il senso di mistero che quest’uomo si porta appresso funge da traino nel beneficio dell’opera: sprigiona fascino la sua ingarbugliata situazione famigliare, al pari della freddezza, derivante probabilmente dal “mestiere” che svolge, con cui vuole liquidare la faccenda. Non credo di dire un’eresia affermando che è lui il fulcro narrativo da cui si diramano tutti gli spunti d’interesse per lo spettatore. Peccato che questa volta il non detto sia così profuso da sembrare più un coperchio per celare qualche magagna strutturale che una precisa scelta autoriale.
I mirati ingressi musicali del compositore estone Arvo Pärt, sentito all’opera già in Beş Vakit (2006), sono una delizia. Pochi suoni, sempre gli stessi, ma calibrati perfettamente nell’esprimere quel mood enigmatico del film.
Poteva essere qualcosa di meglio The Banishment, poteva essere qualcosa di davvero grande. Resta comunque un’opera che nella qualità d’immagine ha il proprio valore, che non è il massimo, ma che perlomeno è già qualcosa.
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