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The Captive di Atom Egoyan con Ryan Reynolds, Rosario Dawson, Scott Speedman Usa, 2014 genere, Thriller Non è la prima volta che Atom Egoyan si cimenta in storie di giovinezze rubate. Inizialmente , con "The Sweet Thereafter", il tema era servito come collettore emotivo di un sentimento personale segnato dalla tragica sorte del popolo armeno, a cui il regista è legato per origini e cultura. Poi. sciolto il nodo della questione con un film "Ararat", tanto esemplare quanto catartico nel considerare i tragici eventi di quella Storia, trasformando la propensione introspettiva in atteggiamento meno speculativo e maggiormente votato al fare, con meccanismi narrativi più serrati e personaggi definiti sulla base di una psicologia maggiormente tipizzata. Una tendenza da cui nascono film come "Il viaggio di Felicia" e "False verità", che rappresentano forse la sintesi migliore di questa nuova fase, e ancora "The Devil's Knot", penultimo lavoro del regista canadese, curiosamente simile al nuovo "The Captive" - e diremo pure a "Prisoners" del connazionale Dennis Villeneuve - e dal punto di vista produttivo, per la presenza di attori provenienti dal cinema mainstream (li Reese Witherspoone e Colin Firth, qui Rosario Dawson e Ryan Reynolds) e per la trama del soggetto, in entrambi i film basato sulle conseguenze di un rapimento di minori. Ma se in "The Devil's Knot" si trattava di processare il presunto colpevole dell'efferato crimine, nel caso di "The Captive" ad andare in scena in una sorta di percorso parallelo, sono da una parte la disperazione e poi la speranza dei genitori della vittima, convinti che la figlia possa essere ancora viva, dall'altra l'ostinazione e il senso del dovere della squadra di investigatori incaricati di seguire il caso.
A differenza di quello sperimentato dai personaggi nella finzione dello schermo, il sentimento che si produce nell'animo dello spettatore è filtrato dalla conoscenza di una verità - sulle motivazioni del rapimento e sulla possibilità della ragazza di essere ancora in vita - che per buona parte del film rimane sconosciuta ai protagonisti della storia. Lo straniamento che ne consegue è pertanto il frutto non tanto della progressione di una vicenda criminale tanto raccapricciante quanto risaputa ma piuttosto di uno sguardo - del regista e dello spettatore - chiamato a osservare le mosse dei singoli giocatori in una sorta di laboratorio comportamentale, in cui il regista inerisce d'infilata alcuni topoi del suo cinema, come per esempio la costante presenza di telecamere a circuito chiuso a sottolineare l'alienazione degli uomini rispetto all'insensatezza del reale; oppure la scelta di far corrispondere l'origine del male da fatti e personaggi legati al mondo dei media e dello spettacolo.
Rimembranze di un cinema che Egoyan sembra aver perso per strada, insieme ad un'ispirazione che confonde il mistero dei primi film con la mancanza di logica degli andirivieni temporali che scandiscono la narrazione, e con i buchi di sceneggiatura che lasciano a metà psicologie e motivazioni. La sensazione di irrisolutezza regna sovrana.
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