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Per due motivi: primo perché Das Schloss è un film girato per la televisione austriaca (ma in Francia e in America è uscito il dvd), e secondo perché riporta la data 1997, una data che per il cinema di Haneke è fondamentale visto che in quell’anno si fece conoscere al mondo intero con uno dei film più scioccanti di sempre: Funny Games. Difatti, nel cast di The Castle figura la stessa coppia dei “giochi divertenti”, il compianto Ulrich Mühe e la nervosa Sussanne Lothar.
Così, questo The Castle, schiacciato dal blasone del suo fratello maggiore, è passato in sordina anche per i più convinti estimatori del regista.
L’opera è tratta dall’omonimo romanzo di Kafka, Il castello (1926, 1° ed.), nella quale si raccontano le vicende dell’agrimensore K. (un misuratore di superfici agrarie) che stabilitosi in un villaggio dal clima ostile come i suoi abitanti, incontra mille difficoltà nel svolgere la sua mansione che di fatto non riuscirà ad assolvere, finendo a (non) fare il bidello. Peggio, verrà risucchiato in un arido triangolo amoroso che non lo porterà a niente. Né al misterioso Castello che sovrasta il paese, menchemeno a Klamm, sfuggente funzionario la cui presenza aleggia per tutta la durata del film.
Avendo io la colpa di non aver letto niente di Kafka a parte le tribolazioni di Gregor Samsa, non saprei dirvi se Haneke sia riuscito o meno a traslare dalle pagine alla pellicola quel senso di sottomissione, arrendevolezza e smarrimento dell’uomo medio di fronte ad un’esistenza sovrastante. Il mio occhio profano dice che il risultato finale lascia un po’di amaro in bocca derivante da un non-intreccio della storia poco funzionale alla deduzione degli eventi. Non è grave il fatto che la pellicola sia lenta perché allora non potrei considerarmi l’adepto numero 1 di Haneke, ma pesa il fatto che nel suo girovagare da un luogo all’altro, da una situazione all’altra, K., dice, fa, subisce cose che non sono facilmente riconducibili alla realtà filmica. Forse questo è anche dovuto all’inizio brusco del film che catapulta K. in una locanda senza sapere niente di lui né del paese in cui è arrivato, quindi prendere confidenza con i vari personaggi, dal loro nome al loro “essere”, può essere difficile. E anche quella voce off che accompagna la visione ha più una funzione descrittiva che una significativa come ne Il nastro bianco (2009).
Poi se Il castello è la vostra bibbia vi ritroverete senza dubbio più di chi non l’ha letto.
Lo stile di Haneke causa forze maggiori (la tv impone come il castello!) si allontana dalla sua solita geometria diabolica – ma non pensate sia inesperienza, basta prendere Der siebente Kontinent (1989!) per vedere bene di che pasta era fatto anche 8 anni prima – lasciando il posto ad una regia ordinaria, utilizzando un linguaggio cinematografico più convenzionale rispetto ai suoi standard.
Non mancano però alcune brevi carrellate suoi protagonisti che camminano nella bufera a preludio dell’ottimo Storie (2000) nel quale si concreta una simile frammentazione della storia.
Piacevolmente inaspettata è una vena grottesca, per non dire surreale, che emerge qua e là nella pellicola in particolare con i due aiutanti onnipresenti. Strano fatto visto il rigore visivo e non, tecnico e non, che attraversa la filmografia hanekiana. Da questo punto di vista allora sì che è riuscito a riproporre sullo schermo le celeberrime situazioni kafkiane, al pari della “non fine” che resta una costante anche nel suo cinema.
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