Se mentre correte dietro al pullman che avete appena perso, un lampo squarcia il cielo e comincia a piovere a dirotto, e proprio in quel frangente vi rendete conto di aver dimenticato l’ombrello a casa, si tratta senza dubbio di una pessima giornata. Ma se vi capita di leggere di qualcuno che non trattiene il fiato perché sa benissimo che la situazione non si risolverà fuori dal blu, allora si tratta senza dubbio di una pessima traduzione.
Come per tutte le cose, anche per le lingue la sostanza va ricercata in profondità, tuffandosi sotto la patina superficiale che le riveste, immergendosi in strati di grammatica, vocabolario e pronuncia, fino a raggiungerne il cuore pulsante: qui, negli abissi della lingua, le parole assumono le forme più incredibili, che viste da sopra la superficie non erano altro che ombre fluttuanti. Ma il cuore di una lingua è tutt’altro che vago e impreciso: il modo in cui un popolo dice ciò che vede, esprime ciò che sente, scherza su ciò che lo circonda, filosofeggia su ciò che fa, ci racconta del popolo stesso, svelandone i pensieri e le radici.
Proprio come un cristallo di neve, che nella sua forma è unico e inimitabile e non sarà mai uguale a un altro cristallo, così ciascuna lingua è in sé un tesoro irripetibile di modi e sensazioni, convinzioni e umori. Ed eccoci dunque al traduttore, che per lavoro e per passione aspira a riversare tutti i significati di una lingua in quelli di un’altra; un’operazione di per sé ardua e complicata, che in alcuni casi può tramutarsi in un atto di violenza gratuita, quando il significato peculiare di una parola, di un’espressione, di una frase, viene completamente travisato e trasformato in un altro significato, totalmente diverso. Ecco, in queste circostanze, a scorrere fra le dita del traduttore è sangue vivo: pugnalate alla schiena da chi avrebbe dovuto prendersi cura di loro, le parole sanguinano. Nella migliore delle ipotesi, riescono a riemergere fra le pieghe della traduzione sbagliata, semicoscienti; nella peggiore, la pagina del traduttore diviene un cimitero di equivoci. Qui di seguito, sono riportate alcune espressioni inglesi, modi di dire o anche termini colloquiali, dotati di un significato particolare, per cui, il più delle volte, trovare un equivalente appropriato in italiano non è immediato come si potrebbe pensare.
Out of the blue. Letteralmente: fuori dal blu.
È un’espressione piuttosto comune che si utilizza per descrivere il carattere improvviso di un avvenimento: “she came here out of the blue” significa “arrivò inaspettatamente”. L’idea è di qualcosa che sbuchi fuori all’improvviso, tant’è che il “blu” a cui si riferisce l’espressione è quello del cielo, dal quale possa per l’appunto piovere giù qualcosa. Volendo mantenere una nota di…colore nella traduzione italiana, potremmo scrivere: “di punto in bianco”.
Don’t hold your breath. Letteralmente: non trattenere il fiato.
Modo di dire colloquiale che si usa per smontare l’entusiasmo di qualcuno. “Non trattenere il fiato”, infatti, sottintende beffardamente: “perché quello che stai aspettando non succederà mai”; quindi trattenere il fiato in attesa di qualcosa che non arriverà mai non può che essere nocivo.
Delle traduzioni appropriate potrebbero essere: “non ci sperare troppo”, “non ci contare”, “non aspettarti niente”, e così via; naturalmente, il contesto in cui è collocata l’espressione è indispensabile per scegliere fra le varie, valide alternative.
To be on fire. Letteralmente: essere a fuoco.
Anche in questo caso si tratta di un’espressione colloquiale, che significa “essere al meglio delle proprie possibilità”. Chi è “on fire”, infatti, non va a fuoco come si potrebbe credere, ma è come se lo sprigionasse, dominando completamente una situazione. Si potrebbe tradurre con “fare scintille” per mantenere il “calore” di quest’espressione, ma è sempre il contesto che, alla fine, aiuta il traduttore a puntare nella direzione più giusta.
What’s your point? Letteralmente: qual è il tuo punto?
Domanda che potremmo rivolgere, spazientiti, a un interlocutore che cerca di dissuaderci dal fare qualcosa fornendoci delle motivazioni che non gradiamo o non condividiamo. Una traduzione abbastanza letterale sarebbe: “qual è il punto?”, ma forse sarebbe insufficiente a veicolare per intero il senso dell’espressione inglese. In casi del genere, solitamente il traduttore preferisce preservare lo spirito della frase originale piuttosto che la sua struttura precisa; una soluzione adeguata, dunque, potrebbe essere: “insomma, qual è il problema?”, cercando di comunicare al lettore/ascoltatore la sfumatura brusca, magari anche retorica, della domanda.
For crying out loud. Letteralmente: per gridare forte.
Si tratta di una locuzione fissa, che esprime impazienza e anche esasperazione. Se, alla fine di una frase, qualcuno sbotta: “for crying out loud!”, potremmo tradurlo con “niente di meno!”, “come se non bastasse!”, o magari, spingendoci un po’ più in là, persino con “e che diamine!”. Come sempre, il contesto ci suggerirà quale soluzione scegliere.
Naturalmente, oltre a espressioni colloquiali di questo genere, tutte le lingue possiedono anche motti e proverbi, che possono trovare (oppure no) il proprio equivalente in altri idiomi. È particolarmente interessante, e anche divertente, scoprire come lo stesso concetto possa essere espresso in modi diversi, altrettanto pittoreschi, in più lingue. È il caso per esempio di:
Don’t count your chickens before they are hatched. Letteralmente: non contare i tuoi pulcini prima che le uova si siano schiuse.
In italiano diremmo: “non dire quattro se non ce l’hai nel sacco”, che esprime esattamente lo stesso concetto: non cantare vittoria prima del tempo. Qualche anno fa, l’allenatore di calcio Giovanni Trapattoni ha contribuito a diffondere anche una versione popolare, “storpiata” del proverbio, che recita: “non dire gatto se non ce l’hai nel sacco”, tradotta maccheronicamente dal mister, in conferenza stampa con giornalisti stranieri, “No say the cat is in the sack when you have not the cat in the sack”. Be’, la versione del Trap ha riscosso talmente tanto successo che in internet, ormai, molti utenti si chiedono, spaesati: quale sarà la versione corretta? Possiamo confermare che quella giusta è proprio la prima, nonostante l’inclusione di un gatto nel detto storpiato, un animale come i pulcini del proverbio inglese, possa portare a pensare il contrario…che il mister l’abbia fatto apposta?
(Per l’origine del detto italiano, si può consultare quest’interessante link).
Infine, non si può non ricordare una delle particolarità più interessanti della lingua inglese, cioè la presenza dei cosiddetti “phrasal verbs”, ovvero “verbi fraseologici”: si tratta di verbi, per l’appunto, che se seguiti da una preposizione possono mutare completamente di significato, allontanandosi a volte anche di chilometri da quello originale. È il caso di “to give up”, che vuol dire “smettere”, mentre, da solo, il verbo “to give” vuol dire semplicemente “dare”; oppure “to look up”, che vuol dire precisamente “cercare nel dizionario”, mentre il verbo “to look” significa solo “guardare” oppure “sembrare”.
La prima tappa di questo viaggio affascinante nella lingua inglese, a malincuore, si conclude qui: gli esempi da portare sarebbero innumerevoli, ma, giusto per rimanere in tema di proverbi, il tempo è tiranno.
Nella prossima puntata, scavalcheremo la barricata per metterci dall’altro lato, quello della lingua italiana, e scoprire come alcune delle nostre espressioni più usate o particolari potrebbero essere tradotte nella lingua di Sua Maestà. Per adesso, ci congediamo con una certezza, ovvero che l’espressione “cup of tea” (“tazza di tè”), per gli inglesi, vuol dire “proprio quello che mi ci vuole”, “proprio quello che mi piace”; probabilmente, noi italiani storceremmo il naso e ci prepareremmo un bel caffè.A presto con la prossima puntata!
Mariachiara Eredia