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Film proposto dall'amico Unwise (al secolo Mauro, ma solo se resistete a un suo discorso sulle ideologie). Musicista, esperto Americanista del blog con ampie competenze in generale sul mondo anglofono, cestista e tennista, onanista secondo necessità infatti non porta nemmeno gli occhiali... ecco cosa è venuto fuori dall'intervista a cui l'ho sottoposto.
robydick:
La trama la sbrighiamo in un nanosecondo, e cioè: c'è un giovane di Dublino, tale Jimmy, che con un semplice annuncio su un giornale e relative udienze di selezione formerà un gruppo di musica Soul, una band di giovani molto brass, con un bel coretto di pupe e quando il successo starà per arridere loro tutto verrà mandato a puttane dalla loro litigiosità. Sono stato abbastanza riduttivo e minimalista? Cosa aggiungeresti a quello che ho scritto?
unwise:
Direi che hai un minimalismo versione winzip… descritto così sembra uno di quegli squallidi teen-drama, dove un gruppo di giovinastri si incontra, decide di formare una band, e tutto, canzoni, arrangiamenti e perfino coreografie, si materializza all’improvviso. Se questo era possibile, e perfino plausibile, nell’atmosfera quasi fatata di “Fame”, non lo è altrettanto nella Dublino povera e semidepressa dei primi anni 80. Parker se ne rende conto benissimo, e dedica buona parte del film alle audizioni e alla formazione del gruppo e del suo repertorio. Proprio l’atmosfera delle audizioni, in cui si rivela un microcosmo parecchio variegato, è la più frizzante del film. A casa di Jimmy ne arrivano di tutti i colori, di tutti i generi (musicali e umani), tutti a formare una sorta di caos creativo dal quale nascerà il nucleo della band. Proprio le prime prove del gruppo, con attrezzature raffazzonate e location improbabili, sono particolarmente verosimili: la difficile ricerca di una certa compattezza esecutiva, dell’equilibrio fra le parti, appartengono al periodo di formazione di tutte le band. Grazie a Jimmy, che non suona ma ha un’idea molto chiara del suono che vuole dal gruppo, e soprattutto all’apporto di esperienza del “vecchio” Joey “lips” Fagen (trombettista piovuto dal cielo, che vanta, o millanta, collaborazioni con nomi leggendari), la dedizione (appunto “commitment”) dei singoli riesce ad essere incanalata verso un suond compatto e ben articolato. Non a caso il momento corale e “positivo”, narrativamente parlando, appartiene proprio a questa prima, entusiastica parte (una versione a cappella di “Destination Anywhere”, cantata da tutto il gruppo durante un viaggio in metropolitana, “copiata” poi da Cameron Croew nel suo “Almost Famous”, che con “the Commitments” ha parecchi debiti…). Poi, come da te anticipato, l’ego dei singoli, cresciuto di pari passo alle loro abilità, finirà per rovinare qualcosa che, con un po’ più di umiltà, avrebbe potuto veramente funzionare. Ed è proprio questa parabola evolutiva a rendere il film una visione obbligatoria per tutti coloro che hanno intenzione di formare una band: qui c’è tutto, la passione, il sacrificio, l’allegria, gli scazzi… insomma è un prontuario dei rischi e della bellezza di un’impresa del genere.
robydick:
Sarà anche fatata in "Fame" l'atmosfera, ma qua non è che siamo molto ottimisti? Intendiamoci, niente di male alla finzione, però a leggere la tua risposta precedente sembra (in parte) che parliamo di un film neorealista. Era davvero così diffusa la "voglia di far musica" in Irlanda? Se sì, da che tipo di tradizioni nasce? Oggi, rispetto ad allora, ci sono delle differenze?
unwise:
L’Irlanda ha avuto, nel corso dei secoli, e continua ad avere, un substrato di pratica musicale vastissimo (tanto a livello professionale che dilettantistico), perfino sproporzionato rispetto all’esiguità della popolazione… in pratica si suona in ogni famiglia! La musica tradizionale, che risale addirittura al periodo pre-cristiano, oltre ad aver fornito le basi per la country music (ne avevamo parlato in occasione della rece di Nashville), continua ad essere molto praticata e conosciuta, e costituisce, anche tecnicamente, un universo a parte. Sopravvive l’uso di strumenti particolari, come il tin whistle, l’arpa celtica o il bodhràn, e soprattutto sopravvive il gaelico: l’orgoglio irlandese, anche in contrasto con il vicino Regno Unito, ha continuato a tramandare le tradizioni, spesso in forma cantata. Tanto il governo quanto i media, poi, supportano fortemente questa tendenza (oltre ai cartelli stradali bilingue, continuano ad esistere e a prosperare pubblicazioni, programmi TV e perfino cartoni animati in lingua gaelica). Parlando invece di periodi più recenti, è bene ricordare che l’Irlanda non è solo la patria degli U2, ma ha dato i natali a una pletora di musicisti di livello internazionale, coprendo una vasta gamma di stili e di generi: dal cantautorato di Van Morrison, all’hard rock dei mitici Thin Lizzy (il cui primo successo fu proprio un riarrangiamento rock di una canzone popolare, Whysky In The Jar) al blues di Rory Gallagher (no, non è uno degli oasis!), fino al folk-punk dei Pogues, alla new age di Enya e dei Clannad, senza dimenticare Bob Geldof e i suoi Boomtown Rats, i Cranberries e i più pop Corrs (questi ultimi tutti membri della stessa famiglia), e ultimo, ma non da meno, il recentemente, e prematuramente, scomparso Gary Moore, cantante e chitarrista fra i migliori al mondo. L’Irlanda sembra poi avere una gran considerazione delle sue glorie musicali: a Temple Bar, quartiere “artistico” del centro di Dublino, sono tutti immortalati sulla Wall Of Fame (che in basso ha anche una sagoma vuota per posizionarsi e farsi ritrarre in fotografia – cosa che il sottoscritto non ha mancato di fare durante la sua ultima visita), una statua life-size di Phil Lynott dei Thin Lizzy fa bella mostra di se nello stesso quartiere, e a Rory Gallagher è stata dedicata addirittura una piazza nella natia Cork. Insomma, Rugby e Guinness non sono certo gli unici passatempi nazionali…
robydick:
Intanto mi scappello a te per tanta conoscenza. Ora però è d'obbligo chiederti: alla luce anche di quanto hai detto, cazzo c'entra il Soul? Perché fare una band che suona un genere tipicamente d'oltre oceano? E' sicuramente significativa oltre che divertente la famosa battuta di Jimmy Rabbitte: "Gli Irlandesi sono i più negri d'Europa, i Dublinesi sono i più negri di Irlanda e noi di periferia siamo i più negri di Dublino, quindi ripetete con me ad alta voce: sono un negro e me ne vanto!", ma in che senso dobbiamo interpretarla? Tra l'altro se ricordo bene a un certo momento descrivono il Soul come un genere che ha un certo rigore di forma nel senso dell'espressione collettiva della band che lo suona, cosa che viene ben evidenziata in contrasto al Jazz nel quale invece oltre al gruppo vengono esaltate le individualità. So che non ami ideologie né dietrologie, solo che, niente niente, c'è un "messaggio" pure politico, o perlomeno di coscienza sociale che dobbiamo saper interpretare? Parliamo pur sempre di un paese diviso in 2, con la componente cattolica che tutt'oggi ritiene gli inglesi degli invasori. A Dublino poco c'è mancato sorgesse un muro come a Berlino...
unwise:
La frase di Jimmy sottolinea, pur con ironia, la realtà di un paese profondamente segnato da divisioni politiche, religiose e sociali, riflesse anche nella città stessa dove la vicenda si svolge, dalle due sponde del fiume Liffey, che tradizionalmente divide la parte benestante (al sud) da quella meno abbiente (al nord – e non a caso uno dei nomi proposti per il gruppo sarà “the northsiders”), nel quale era ancora ben udibile l’eco del clamoroso sacrificio di Bobby Sands e dei suoi seguaci (il racconto di Roddy Doyle è datato 1987) di qualche anno prima (1981). Un momento importante nella storia dell’Irlanda moderna, nel quale (soprattutto dopo l’episodio di Sands) il cieco odio per l’invasore britannico cominciava a lasciare spazio al semplice amore per la propria patria, alla voglia di superare il periodo nero del terrorismo e delle repressioni. Ancor più pregnante, in questo senso, è la frase pronunciata da Joey “lips” Fagen, nel momento in cui incontra Jimmy: “i fratelli irlandesi non si ammazzerebbero come cani se avessero (il) soul!” (ovviamente si tratta di un piccolo gioco di parole sul significato di soul=anima). Nello scenario di un paese depresso, unito alle singole condizioni di semi indigenza dei protagonisti, forse ci si sarebbe aspettati che la musica si dirigesse verso il nichilismo dei Sex Pistols o la palude accidiosa dei Joy Division, invece, la scelta del soul come genere è assolutamente funzionale alla storia che Doyle vuol raccontare, e al messaggio che vuol lanciare: è una musica che parla un linguaggio semplice e onesto, che ha, come sottolinea Jimmy “il ritmo del lavoro (manuale) e delle scopate”. È anche, come gli spirituals di cui è discendente profano, una specie di mantra corale, che proprio nell’abbandono di ogni deriva egoistica, e nell’impegno comune, ha il suo fondamento. È una forma che non ha sovrastrutture e pretenziosità intellettuali, è una specie di sport che esalta il gioco di squadra, almeno finchè tutta la squadra profonde l’impegno dovuto nelle rispettive mansioni, e, ovviamente, finchè nessuno pensa di essere più importante degli altri… la vicenda può dunque viaggiare in parallelo alla storia d’Irlanda dei tempi in cui si svolge, proponendo una nuova chive di lettura del presente: la vera rivoluzione sta nel costruire qualcosa, non nel distruggere o nel lasciarsi morire. A cosa avevano portato, infatti, la cieca furia dell’IRA e l’auto-immolazione di Bobby Sands sull’altare di un’ideologia estremizzata? Solo a maggiore depressione, maggiore repressione e financo disprezzo.
E finchè il gruppo ci crede, finchè fa tesoro dei consigli di chi ha esperienza (vera o presunta), finche lavora sotto la stessa "bandiera" (il "dignitoso", secondo le parole di Joey, abito scuro)i risultati non mancano. Ma ci vuole pazienza, e se si vuole tutto e subito, quasi certamente si finisce per rovinare tutto. La fine del gruppo è una cocente delusione per Jimmy, che è un po’ il Thomas More di questa Utopia moderna, ma la chiusura, in cui lui stesso fa da narratore, non ce lo mostra sconsolato e senza speranza. E a buon diritto. In fondo lui, per citare il compianto Belushi, ha visto la luce…
robydick:
Veramente eccezionali le tue risposte! Pensa che metto questa rece in Olimpo più per la rece stessa che nemmeno per il film. I miei più riverenti omaggi e l'intervista la chiuderei quasi qua, il finale di questa risposta è strepitoso.
Però dai, ti ho pungolato su argomenti serissimi fino ad ora, colpa mia. Adesso ti propongo una chiusura chiedendoti di esaltare gli aspetti divertenti del film, in fondo è anche una piacevolissima commedia, no? Penso ad esempio a quel batterista che picchiava testate tremende a chi lo faceva incazzare, o al trombettista che trombava tutte le coriste. Ci dici 2 parole anche sul particolare casting di questo film?
Non aggiungerò altro alla tua risposta, che chiuderà la rece, per cui ti ringrazio infinitamente già qua!!
unwise:
The Commitments è comunque, soprattutto, una godibilissima commedia. Parente, anche se non diretta, di quel mitico (e da noi da sempre, inspiegabilmente, inedito) “This Is Spinal Tap”, “documentario” di Rob Reiner, che in modo quasi surreale, ma spesso non troppo lontano dalla realtà, raccontava la vita all’interno di una band, in un mix fra la commedia degli errori e l’aereo più pazzo del mondo. Il nostro è un susseguirsi di situazioni comiche, ma sempre piuttosto verosimili, di personaggi particolari, abilmente ritratti da Doyle nel suo racconto, e altrettanto oculatamente scelti da Parker per il film. E quale poteva essere il modo migliore di rendere la spontaneità dei personaggi, se non scegliendoli fra una pletora di candidati presi dalla strada? Non molto dissimili da quelle narrate, infatti, devono esser state le audizioni di Parker, con tanto di scoperta “casuale” del cantante solista: nel film Jimmy lo sente cantare ubriaco ad una festa, nella realtà capitò sul set al seguito del padre, che lavorava come vocal coach per Parker. Mancando in quel momento il supporto logistico adeguato, il padre gli chiese di accennare al regista alcuni brani che aveva scelto, e fu subito scritturato (aveva 16 anni… anche se sembra un tantino meno giovane). Furono audizioni più che altro musicali: anche chi poi non si trovò a suonare nel film, fece l’audizione per un ruolo da musicista (Robert Arkins provò come bassista, ma l’intuito di Parker gli affidò il ruolo del “manager” Jimmy Rabbitte, mentre quello della sorella, Sharon, fu affidato ad Andrea Corr, più tardi giunta al successo internazionale come cantante dei Corrs), e molti dei candidati compaiono fra gli audizionanti a casa di Jimmy in piccoli, e spesso esilaranti, camei (oltre alla citata Andrea, anche due altri membri della famiglia Corr). Nel documentario a corredo del dvd c’è l’audizione che Parker fa a Dave Finnegan, per il ruolo del rissoso batterista Mickah Wallace, provocandolo al limite della rissa… alla fine ha quasi la bava alla bocca! (una figura, questa, forse ricalcata su Phil “philty animal” Taylor, batterista dei Motorhead, al quale il padre aveva comprato una batteria, “così avrebbe smesso di picchiare gli altri”). Nel casting come nella vicenda, ai pur bravi ma sempre improvvistai attori, si affiancano, a mo’ di guide, due vecchie volpi, non a caso nei ruoli del musicista più esperto e del padre di Jimmy. Johnny Murphy, è Joe “lips” Fagan, trombettista e dongiovanni (a scapito dell’età avanzata, si ripasserà le tre giovani coriste), personaggio “misterioso” dal nebuloso, o glorioso, passato. Curiosamente, è l’unico del gruppo a non essere un vero musicista (alla sua obiezione a Parker “ma io non suono la tromba”, gli fu risposto “lo farai”). Nel ruolo di jimmy Rabbitte senior, invece, troviamo quella specie di prezzemolo del cinema britannico (oltre che membro fisso del cast di Star Trek) che è Colm Meaney: padre irlandese più che tipico, ma più che cattolico, devoto ad Elvis (alla frase del figlio “Elvis non è soul!”, risponde “Elvis è dio!”); sarà peraltro protagonista anche degli altri due adattamenti cinematografici (“The Snapper” e “The Van”) della “trilogia di Barrytown”, sempre nello stesso ruolo, ma curiosamente con nomi diversi…
la chimica fra gioventù irrequieta e "maturità" funziona benissimo sia nelle riprese che nella trama (almeno fino ad un certo punto), ed è l'occasione per esilaranti scambi di battute, che punteggiano le vicende e vicissitudini del gruppo (e chi ha o ha avuto un gruppo ci si può benissimo riconoscere). non c'è (e per fortuna, mi vien da dire) un finale alla "Hannah Montana", ma nemmeno nulla di tragico. c'è forse, nelle parole di Jimmy, che chiudono il film, un po' di rammarico, ma non manca il sorriso: "Rolling Stones? e chi cazzo sono costoro?"
So che nel web corre voce che unwise non esiste, che è un personaggio mitico, o mitologico, un'intelligenza artificiale... e invece no, eccovelo qua, proprio alla Wall of Fame di Dublino!
e dopo questa visione che, comprensibilmente, avrà turbato gli animi più sensibili, ecco il pezzo citato nella rece, "Destination Anywhere", in una splendida versione che dovrebbe riportare lo stato vitale del lettore su più lieti binari...
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