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The Congress

Creato il 23 agosto 2014 da In Central Perk @InCentralPerk
E' già Ieri -2013-
Quando nel 1895 i fratelli Lumière tennero la loro prima proiezione cinematografica, si aspettavano che a distanza di un secolo, e anche più, gran poco sarebbe cambiato?
Ancora persone, tante persone, riunite assieme, sedute su poltroncine o scomode sedie, a fissare una grande tela bianca che improvvisamente si illumina di luci e colori.
Certo, in realtà il cinema di cambiamenti ne ha fatti eccome, dalla visione domestica, agli effetti computerizzati, fino al 3D, la sua evoluzione sembra seppur lenta, inarrestabile.
Ma a guardar bene, le sue basi, la sua fruizione, non sono cambiate poi molto.
Ma fra 20 anni?
E fra 40?
Sarà ancora tutto così statico?
Difficile dirlo, difficile sopratutto crederci, visto che sempre più gli schermi televisivi, di un computer o anche (sob) di un cellulare, sostituiscono quella grande tela bianca.
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E così anche Ari Folman immagina un futuro in cui il cinema perde, o aggiorna, la sua natura.
A partire da chi lo incarna, da chi lo vive o la fa vivere: gli attori.
Il regista ci presenta infatti una Robin Wright dimenticata, che nel suo cammino non ha incontrato serie TV come House of Cards, ma vinta dalle sue paure e dai suoi attacchi di panico ha finito per fare scelte, e film, sbagliati, finendo per preferire una famiglia complicata (un figlio complicato), alla carriera.
L'occasione per cambiare gli si presenta quando la Miramount decide di scannerizzare i suoi attori, produrne delle copie computerizzate che non saranno più soggette all'invecchiamento, alle bizze e ai forfait delle vere star, ma saranno utilizzati (e sfruttati) a piacimento.
Accettare quest'offerta vantaggiosa da un lato, snaturante e temibile dall'altra?
Robin accetta, facendo catturare tutte le sue emozioni, firmando un accordo per cui né ora né mai dovrà recitare una parte.
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E fin qui, questo discorso metacinematografico prende, eccome, catturando e mantenendo alta l'attenzione dello spettatore proprio grazie a quella bravura tanto decantata della Wright, per una costruzione fredda ma efficace di un dietro le scene di Hollywood fatto di squali e prede.
Poi il film vira verso tutta un'altra direzione, sia di trama che di stile, approdando al mondo dell'animazione e in un futuro in cui il nuovo oppio del popolo consiste nel dimenticare le proprie misere vite vivendo in un mondo di finta animazione e colore.
E qui ci si perde, dimenticando il cinema, il suo futuro, concentrandosi -ma neanche troppo- sulla ricerca disperata di una madre del figlio, di una verità che non si capisce e che fatica ad essere svelata.
In questo trip, in queste allucinazioni fluide e fluo, l'attenzione e l'interesse calano, e anche quando la realtà, in tutto il suo grigiore, in tutto il suo sporco, torna sullo schermo, l'irrimediabile è già avvenuto.
Ari Folman non riesce a mantenere il tono del suo film, dilatando le riflessioni, passando dal generale al particolare a nuovamente al generale, disperdendo la forza d'impatto di un film che sulla carta prometteva un gran bene.
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