Tre anni dopo Three Days (1991) Bartas, presente col suo viso pulito, continua l’immersione silenziosa delle vite perdute, malinconiche e alcoliche di persone dai volti segnati, le barbe incolte, i seni piccoli e sgraziati. È calarsi in un mondo di tenebra dove la comunicazione verbale non è concepita e il contatto umano viene spogliato dai sentimenti nobili per precipitare in goffi avvinghiamenti di balli sfrenati.
Non c’è parola tra i personaggi, solo il costante brontolio di un vociare ovattato che sembra giungere dall’altra parte del muro, dietro, dal corridoio, angusto spiraglio definito dal regista un passaggio tra il presente e il passato che contiene molte porte dietro le quali macinano non-vita esseri umani alla deriva, in preda alle macerie della propria esistenza in una raffigurazione atemporale: il bambino piromane è Bartas che si aggira per l’abitazione? La prima parte del film sono ricordi? Amari granelli che precipitano nella clessidra del passato?
Le risposte non si possono desumere, abbiate pietà delle nostre anime sembrano dire quelle persone che per dimenticare tutto il resto si lanciano in un ballo assurdo, la riduzione in scala dell’ugualmente assurda danza di Satantango (1994).
Ma ciò che allontana Bartas da Tarr, aldilà dello stile inevitabilmente diverso, è che l’ungherese nonostante non possa sembrare, si interessa eccome della storia raccontata che riesce a fondere in maniera celestiale con la sua tecnica, il lituano invece pare disinteressato dal suscitare coinvolgimento di chi guarda per enfatizzare alla noia quelle atmosfere fatiscenti d’abbandono divino sul ciglio del baratro. Sono atmosfere che sprigionano fascinazione ma se per un’ora e venti non c’è praticamente altro si può anche passare oltre.
Consigliabile solo per chi va in brodo di giuggiole di fronte ad un Tarr o un Sokurov, per fare due esempi (comunque superiori), e vuole provare un diversivo.