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“I monaci sono uomini molto buoni, molto pii. Le bare gli ricordano l’inevitabile fine” (Signora Malins, a proposito dei monaci che si coricano nelle bare)
L’ultima fatica di John Huston, prima di lasciare queste desolate terre, è un film del 1987 tratto da uno dei quindici racconti del capolavoro di Joyce, Gente di Dublino. Huston sceglie il racconto conclusivo, il più lungo e probabilmente il più rappresentativo: “I Morti”. La storia è apparentemente molto semplice: siamo nell’Irlanda del 1904, un gruppo di amici dell’alta borghesia di Dublino si riunisce a casa delle due nubili sorelle Kate (Helena Carroll) e Julie Morkan (Cathleen Delany) e della nipote Mary Jane (Ingrid Craigie). Tra gli invitati ci sono Gabriel (Donald McCann) e Gretta Conroy (Anjelica Huston). Loro sono il sottile filo che ci conduce in questa festa post-natalizia e tra personaggi variegati, canti, danze, arrosti, discorsi preparati e litigi ideologici, scopriamo un innevato universo irlandese. E un’inaspettata conclusione.
Huston scelse di dirigere The Dead non a caso. A 80 anni suonati e con la morte alle calcagna, omaggiò Joyce e l’Irlanda, paese d’origine della sua famiglia, dal quale ebbe anche la cittadinanza nel 1964 e dove visse per alcuni anni. Scelse proprio il racconto I morti, credo per dirci addio, raccontando una storia molto diversa dal suo solito, assieme alla figlia, quella meraviglia di figlia aggiungerei. Stava male, molto male, costretto sulla sedia a rotelle e trasportandosi l’ossigeno per via di un maledetto enfisema polmonare. Tuttavia riuscì a realizzare un’opera incantevole, che parla di gente di Dublino. Di morti. Parla di noi.Fedelissimo al racconto, il film è molto teatrale, le conversazioni tra gli invitati e le riflessioni di Gabriel sono la struttura fisica del racconto e anche del film. E’ un adattamento perfetto ed il risultato è impressionante. Leggere il racconto e vedere il film suscitano le stesse emozioni, immensa la capacità di Huston di rievocare l’atmosfera del gioiello di Joyce.
Ho amato tantissimo Gente di Dublino, la scrittura di Joyce è per me fonte di palpitazione e immaginazione, è comunicazione massima col lettore che non può astenersi dal farsi risucchiare all’interno delle sue storie. Gabriel Conroy è Joyce. L’Irlanda del tempo gli sta stretta, si auto esilia a Trieste e partorisce quest’opera, concludendola con I morti, creando il personaggio di Gabriel che discute con un’amica mentre danzano, la quale lo accusa senza tante cerimonie di essere un anglofono. Joyce, come Gabriel, respinge la cosiddetta “irlandesità” bigotta, corrosa da un ottuso e limitato modo di vivere la religione, la culture, la virtù, la verità. Ma nello stesso tempo la sua terra è la struttura ossea delle sue storie, la carne, la pelle, gli abiti, i colori e i profumi. Joyce ci parla di Dublino, ma ci parla del mondo in cui viviamo tutti, racconta di storie irlandesi, ma sono storie universali, e soprattutto ne I morti il messaggio è chiaro. La caducità delle nostre misere esistenze, che tutti noi colmiamo come possiamo, ci rimanda alla semplice constatazione che siamo tutti destinati alla stessa tragedia finale.
Huston prende tutto il pacchetto e lo fa suo, impossibile non restare estasiati dalla messa in scena di questo straordinario racconto. L’ultima parte del film è probabilmente uno dei momenti più toccanti a cui io abbia mai assistito, la sola presenza scenica di Anjelica Huston regala forti emozioni. E negli ultimi minuti, in cui Gabriel riflette alla finestra, noi ascoltiamo le sue parole imbambolati, e attraverso la finestra, tramite il suo sguardo, scrutiamo la neve cadere. “Cade la neve, cade nel cimitero solitario dove giace sepolto Michael Fury, cade leggera su tutto l’universo, cade lenta, come la discesa della loro ultima fine. Su tutti i vivi e sui morti.”
Grazie Joyce. Grazie John, per averci salutato così.
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