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C’era una volta Mel Gibson, un attore di film d’azione con una simpatica faccia di sberle e un buon curriculum di sguardi carismatici. Un giorno abbracciò Gesù e decise che dirlo a tutto il mondo era la cosa giusta da fare, ma invece di scegliere un messaggio di pace e armonia optò per lunghe torture e morti sgradevoli, spiegando che il Dio migliore era quello che uccideva gli avversari senza pietà e non perdonava nessuno manco a pregarlo in ginocchio. Girò un film, in particolare, dove illustrava come la religione avesse portato la civiltà a un gruppo di selvaggi sanguinari che abitava il Centro America, spogliandoli di certe usanze tipo sacrifici umani che, evidentemente, in Europa vedevano male. Se si toglieva quel discutibile epilogo, Apocalypto era un’ottima avventura fatta di eroismo, pezzi d’uomo, sentimento, cattivi bastardi e parecchie botte, con un dosaggio altissimo di violenza, di certo ben oltre il livello a cui era abituato il pubblico medio di un blockbuster.
Facciamo un salto in avanti, adesso siamo in Nuova Zelanda, incontriamo Toa Fraser che ha girato una manciata di commedie che molto probabilmente nessuno da questa parte del mondo ha visto, e poi, di colpo, tira fuori questo progetto di brutale storicità come non se ne vedevano proprio da quella selvaggiata gibsoniana che per me ha lasciato una bella impronta purtroppo mai più ricalcata. Ambientato un paio di secoli fa nelle foreste neozelandesi, The Dead Lands ha un approccio molto schietto e ruvido nel piantare una storia immediata e farla scorrere bene nei fiumi di sangue che vengono rilasciati, non ci sono sorprese ma va bene così, perché nella sua linearità viene evocato tutto ciò che serve: la formazione di un giovane guerriero, la vendetta nei confronti di un nemico bestiale e cieco, il padre ucciso da onorare e un maestro da cui imparare a tirare mazzate. Sono ingredienti base e infatti il film ha radici ben piantate nella tradizione avventurosa più pura, talmente a fondo che ciò che altrove sarebbe esile contorno qui acquista uno splendido fascino ancestrale: i tatuaggi maori, le danze durante i combattimenti, i gesti, gli sguardi e le linguacce sono conosciuti per mezzo degli urli della nazionale di rugby ma qui guadagnano ben altra espressione, mentre armi, credenze e regole sociali aumentano quell’incantevole alienazione alla stregua di un qualche sense of wonder soprannaturale a cui deve ricorrere il cinema horror.
Lo stesso culto dei morti e la concezione di una vita ultraterrena rinvigoriscono il film applicandone uno smalto primordiale che impedisce alla sola ultraviolenza di emergere, come poteva essere facile immaginare pensando anche ai festival prettamente di genere in cui The Dead Lands è stato proiettato. Tra volti spappolati, arti recisi, rituali cannibalistici, sgozzamenti e tanti, tanti cazzotti sul muso, si aprono spazi ampli e solenni per dipingere dialoghi coi morti, riflessioni sulla vita, redenzioni e ricerche spirituali, in una strategia visiva che potrebbe ricordare l’autorialità irritante di un Valhalla Rising ma che per fortuna viene del tutto scansata per mezzo di tempi perfetti, silenzi meravigliosi e motivazioni pienamente giustificate.
La vendetta di Hongi è sincera e ferina come necessita la storia di cui è protagonista, non è mezzo per un cinema alto e sofisticato ma poco interessante come l’opera di Refn, ed è questo ciò che più piace di un film che spezza certe monotonie e che potrebbe aprire strade per nuovi sottogeneri di cui sicuramente non abbiamo bisogno ma ai quali, alla fine, è anche un po’ difficile rinunciare.
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