All’inizio di The Disappearance of Alice Creed (“La Scomparsa di Alice Creed”) è tutto meticolosità e preparazione: equipaggiamento, tute, passamontagna, trapani, viti e bulloni per montare i pannelli che andranno a isolare acusticamente la stanza. E poi, telefoni cellulari da due soldi, da comprare e buttare via dopo aver fatto una sola telefonata.
Il cellulare è uguale al mio. Che l’ho pagato meno di venti euro perché sono un distruggi-cellulari. Qualcuno direbbe che trattasi di affinità elettiva.
Cinema british, pallido come il sole che c’è laggiù, quando si riesce a vedere.
E i pannelli, le imbottiture, la moquette, tutto, anche l’aria e il colore smunto degli attori, tutto sa di Inghilterra. La cosa non è necessariamente un male.
La prima eccezione, o dubbio, che mi viene mentre guardo il primo quarto d’ora è che, appartenendo al cinema di cui sopra, immagino dove il tutto voglia andare a parare: il gioco delle scatole cinesi, all’inglese, con un’annusata promessa di perversioni sessuali, bondage e sopraffazione. Un po’ noioso, almeno per me.
L’altra è che i due attori che lavorano per predisporre il rifugio/bunker che accoglierà Alice, sembrano una coppietta. O meglio, una caricatura di una coppia. Sapete, i carpentieri, muscoli e bulloni delle pubblicità? Però pallidi, perché sono iglesi. Ecco, proprio così come li vedete nella vostra testa.
Tre soli personaggi per tre soli attori: Vic (Eddie Marsan), Danny (Martin Compston) e Alice (Gemma Arterton).
Un regista, J Blakeson, quello di “The Descent – part 2″ (2009). Ma, no! Non scappate!
Vic e Danny sono ex-galeotti e compagni di cella, rapiscono Alice perché figlia di un uomo ricco con l’intento di chiedere un riscatto.
***
[Ok, spoilers. Qualcuno qua e là...]
Il primo Quarto d’Ora
Devo ammettere che il primo quarto d’ora, forse qualcosa di più, è davvero ben fatto. Spartano, lineare e insieme dinamico. La suddetta preparazione dei due, precisa, esigente e ordinata, scandita da rigide tabelle di marcia. Il rifugio è stato isolato a livello acustico e rinforzato con porte di metallo e serrature fresche di saldatura. Il tutto, il rapimento, deve avvenire in tempi ristrettissimi, giusto i pochi minuti che la ragazza impiega per uscire di casa e salire in macchina.
C’è da foderare il furgone e da saldare anelli di ferro per attaccarla una volta ammanettata. C’è da bruciare i vecchi abiti, quelli usati per fare compere e da controllare tutto il resto dell’equipaggiamento, nastro adesivo, pistole, legacci, cappucci per impedire all’ostaggio di carpire informazioni lungo il tragitto verso il rifugio.
Una preparazione che cattura l’attenzione e tiene ben desti, e ti coinvolge anche un po’ allorché ti scopri a domandarti se hanno davvero pensato a tutto. Altrimenti il film finisce prima di cominciare…
Il rapimento, alla fine, non si vede.
Ed è un altra scelta azzeccata.
Si passa quindi direttamente alla fase post rapimento, ed entra in scena Alice, l’ostaggio.
Legata come un salame, imbavagliata con palla di gomma ficcata in bocca, visibilmente spaventata.
Alice viene denudata e poi fotografata. Le fotografie andranno a corredare, su una chiavetta USB, il messaggio da consegnare alla sua famiglia insieme con la richiesta di riscatto.
E Gemma Arterton, caspita, è davvero brava. Che sia anche bella, lo sapete benissimo.
Stop.
***
Alice
A questo punto, dopo questi minuti iniziali così pregni, ci si aspetta un solido thriller psicologico, a base di gerarchie rapitori-ostaggio, rapporti di forza e soprusi assortiti, specie dopo aver visto Alice, legata e ammanettata mani e piedi, urinare aiutata da uno dei rapitori. Sembra una scena forte, e in effetti lo è, ma non suscita disgusto o sdegno come forse vi aspettate. E questo è un altro aspetto pregevole del film. Appare chiaro, infatti, nonostante le inquadrature feticiste che indugiano sui particolari del fisico della bella Alice, mani, piedi, ombelico, soprattutto, che gli altri due co-protagonisti si sono attribuiti un ruolo professionale; nella loro mente solo il riscatto. L’ostaggio Alice è, in effetti, solo il mezzo vivente che essi hanno scelto, tra tante altre, per arrivare a quel mucchio di soldi. Alice non è oggetto sessuale. Non in questo caso.
Nessuna morbosa intenzione nelle loro azioni. I due aiutano, passatemi l’espressione, la donna a sopportare al meglio, sempre che lei sia disposta a collaborare, la dura esperienza del sequestro, anche in quei momenti intimi, la resa pubblica dei quali, dinanzi ai due criminali, non manca di suscitare in lei accessi di disperazione.
Si pensa, da spettatore, di stare assistendo a un prodotto superiore alla media. Duro e spietato laddove occorre che ci sia durezza e spietatezza, ovvero da parte dei rapitori; sconvolto e disperato dalla parte dell’ostaggio. E, in più, nessun abuso di carattere sessuale. E non perché sia necessariamente negativo in un film prendere questo tipo di piega del racconto, ma perché estremamente difficile, una volta intrapresa quella china, riuscire a metter su un intreccio che non suoni, più che perverso e trasgressivo, involontariamente ridicolo.
Si potrebbe vedere in due scene in particolari, quella dell’urina e, a breve distanza, quella delle feci assistite, due richiami a perversioni estreme, miste al BDSM, per via delle manette e corde assortite.
Se quello si cerca, quello si trova. In ogni caso le immagini, al di là delle interpretazioni psicoanalitiche, possono anche essere guardate con spirito pratico. Cioè, in caso di rapimento, è così che le cose dovrebbero andare, secondo la logica e la verosimiglianza. Senza farla tanto lunga.
***
Tre per Due
Il film prosegue. Divengono chiari i rapporti gerarchici all’interno della coppia di rapitori; Vic, in questo senso, è mente aggressiva del duo. Mentre Alice, una sempre più brava Gemma Arterton, è un ostaggio che finge docilità, ma che in realtà, sotto il cappuccio, sta sempre a pensare.
Poca introspezione, però. La telecamera osserva, analiticamente, le azioni dei personaggi. Nessun pensiero, nessuna voce fuori campo, nessun narratore onnisciente. Tutte cose belle…
Ma…
Ma, come presupponevo all’inizio, le mie impressioni si sono rivelate esatte.
Un film basato su tre attori o sposa il teatro dell’assurdo, e non è questo il caso, o presuppone ulteriori legami tra i protagonisti, tutti e tre, soggiacenti alla contingenza del sequestro. I due milioni di sterline, per capirci, fanno gola un po’ a tutti. Con esiti ambivalenti.
E poi via con una finestra sui due maschietti e, a turno, con ognuno dei due visto insieme alla bella Alice.
Tutte e tre cotruiscono o distruggono qualcosa, cambiano le carte in tavola, progettano, stabiliscono obiettivi.
Due o tre scivoloni grossolani forzano la prosecuzione degli eventi. E va bene tutto, ma essere così scemi in situazioni in cui ne va della propria vita non è accettabile.
Ma gli attori piacciono, anche se alla fin fine non li si conosce come si vorrebbe. Stregati dai buoni propositi di inizio pellicola si soprassiede alla mano leggera con cui il resto del film è condotto.
Omaggi a Trainspotting, con la tazza del cesso del rifugio a tu per tu con Danny, anche se in scene che di visionario non hanno nulla, ma che non mancano di suscitare un certo disgusto.
E alla fine si è costretti ad ammettere che il film poteva essere bello, caldo e spietato, ma è solo bellino, tiepido e davvero poco spietato.
Nessuno è cattivo, nessuno è buono, tra i tre protagonisti. Ok, forse uno solo. A mala pena.
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