Usare i Pink Floyd a fini descrittivi è una pratica tanto elementare quanto una delle applicazioni dei calcoli che si imparano nella scuola primaria, di quelli da cui poi è difficile ritornare analfabeti da grandi. Ma a me non mi interessa, e “The great gig in the sky” me la tengo sempre a portata di mano, tanto sta bene su tutto. Addirittura proprio ieri mi sono messo al pianoforte per impararne l’intro, avete presente il giro di accordi, e vi assicuro che non è poi così elementare riprodurla soprattutto se siete adulti e non vi esercitate più tanto, come me. Anche se, rispetto a quando suonavo io, ci sono modi e strumenti per imparare le cose più facilmente. Infatti mi sono messo con lo smartphone in cuffia e così ho potuto procedere agevolmente battuta per battuta anche se ero sul mio vecchio pianoforte che si trova ancora a casa dei miei genitori in Liguria e che, con il tempo, ha perso un bel po’ di accordatura. Mi resta per ora il dubbio se il pezzo sia in sol minore, come penso anche considerando un altro loro successo e mio cavallo di battaglia dell’esecuzione casalinga che è “Shine on you crazy diamonds”, o mezzo tono sopra. Il guaio è che l’originale che ho tra le canzoni che porto sempre con me per ogni evenienza emotiva si trova proprio a metà tra le due tonalità, rispetto all’accordatura del mio piano, in un comma difficile da riprodurre con strumenti acustici e impossibile da calcolare nemmeno se si è freschi di operazioni elementari, come mia figlia. Anzi, loro certe operazioni non le hanno nemmeno fatte malgrado stiano concludendo la quinta. Ma in matematica sono rimasti molto indietro. Niente potenze, niente circonferenza, né aree e tanto meno il volume. Poco prima di mettermi al piano per imparare i Pink Floyd in cuffia le ho chiesto di calcolare lo sconto che non ci aveva fatto poco prima la rivendita di pasta fresca in cui avevamo acquistato una scorta da ventisette euro e tre centesimi di ravioli con la borragine, che poi noi mettiamo nel congelatore e che ci consente di gustare poco per volta a Milano un po’ dei sapori che ci siamo lasciati distanti, come il pianoforte scordato a casa di mia madre e mio padre. Che poi uno si aspetta che, su una spesa di ventisette euro e tre centesimi, al momento di battere il prezzo sulla tastiera del POS il commerciante quei tre centesimi te li tolga, anche se in teoria non sarebbe tenuto. E infatti in Liguria state sereni che nessuno vi fa degli sconti, nemmeno di tre centesimi che su ventisette euro è una percentuale da partito di estrema destra alle elezioni. Quindi si parla di ben altre occasioni perse, il pianoforte poi lo si accorda, la mentalità di un popolo invece no, tanto continuerà a vendere ravioli fatti a mano con la borragine anche se cambio abitudini e non metterò più prodotti tipici della mia terra nel congelatore. Già stavo per convincermi a non ascoltare più “The dark side of the moon” a partire dal crescendo di urla che precede “Breathe” perché mi mette a disagio, proprio ora che ho qualche paura in più a causa della malattia di mio papà. Non bisognerebbe infatti avere paura di “The dark side of the moon”, un disco in cui da sempre identifico la metafora della vita e della morte nella parte chiara e nella parte scura, sarà anche per via della voce maschile che si percepisce proprio sotto gli accordi di piano iniziali di “The great gig” in cui si sente qualcuno che dice non avere paura di morire, in fondo perché si dovrebbe. Così decido di impararla proprio mentre ritorno dalla clinica in cui mio papà giace ormai completamente assente per l’Alzheimer, privo di ogni contatto con la realtà, con me, con mia madre, con quella percentuale che lo separa dal concludere un qualsiasi contributo alla conversazione di più di tre parole di senso compiuto che è pari allo sconto dei ravioli e al comma di accordatura del pianoforte che aveva comprato a suo figlio, cioè io, affinché magari un giorno imparasse un brano dei Pink Floyd a fini descrittivi di qualcosa che davvero, non saprei proprio da dove iniziare a descrivere.
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