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The Host

Da Eraserhead
The HostImmaginiamoci che nel tamburino dei crediti figuri il signor Roland Emmerich al posto dell’esimio Bong Jonn-ho, e che un Ben Affleck di turno sostituisca il sempre bravo Song Kang-ho. Aumentate il carico di catastrofismo apocalittico e inserite un po’ di pubblicità occulta a random.
Ok, fatto?
Ohibò! Facendo l’immaginario paragone tra un potenziale film simile a questo diretto da Emmerich e The Host, non scorgo differenze abissali, totali, che allontanino i due stili; ne trovo altre, sì, dovute ad un background culturale diverso, ma che tuttavia continuano a farmi rimanere della mia idea: c’è un bel po’ di Corea nel film, ma anche molta America.
Ora, non sono amante del genere, anzi lo rifuggo con tutto me stesso, ho dribblato Cloverfield (2008), per stare nel presente, e tutta quella riga di filmacci b-movie con piovre assassine e mosche pachidermiche, per dire del passato, perciò a prescindere dalla visione parto già con un grande credito nei confronti di un monster-movie: deve “darmi” tanto – in termini emotivi e non – per soddisfare la mia pulsione scopica. The Host è stato avaro nei miei confronti, ma si tratta di un problema bipartisan.
Perché da un lato ci sono io (ostinato refrattario agli scoppi agli incendi alla computer grafica se palesemente usata) e dall’altro c’è quel genere preciso con le sue caratteristiche (snobbatore di indagini extra filmiche mega pompatura di sentimenti ridotti a barzellette), e dunque conciliare le due parti è impresa pressoché impossibile. Anche se (lunga pausa di gongolamento) Lars von Trier sembra che stia preparando un disaster-movie…
Comunque, di americano c’è la mania di esagerare nel dare una spiegazione avvilente per banalità di un mostro che nasce a causa di rifiuti chimici gettati incautamente nel fiume, ma c’è anche la necessità di sospendere la propria incredulità di fronte ad una bambina che sopravvive giorni e giorni nella tana del mostro, il quale da buona bestiaccia yankee non viene abbattuto da gas letali fucilate o chessò io, ma da un paletto di ferro, un paletto nel gargarozzo e bon, stecchito.
Aldilà di queste sottigliezze che credo siano ordinarie per il tema, digerire ripetute scene di azione in cui un serpentone fa incetta di esseri umani, esibendo tali sequenze al pubblico nell’ostentata ricerca dello spettacolo, è qualcosa che mi riesce difficile, molto molto difficile.
Il salvagente che scampa l’annegamento è gentilmente fornito dal mondo coreano che nonostante sia messo ai margini più del dovuto riesce a incunearsi come un rettile nella vicenda, raccontando con una sensibilità tutta sua, genuina commistione fra commedia e dramma, i fiumi che scorrono fra le rive familiari ben più interessanti di quelli che ospitano il mostro infame. Un leit motiv quello dei legami di sangue che Bong sa maneggiare bene, benissimo come dimostrerà in Mother (2009), nei quali spicca indistintamente la presenza di un tonto. Di uno scemo. Inettitudine fatta persona, ma plasmato dalle pellicole bonghiane nell’eroe inaspettato, oppure nella vittima caduta in battaglia ma coperta di una gloria mai attesa (vedi Memories of Murder, 2003).
Mi piace, cazzo se mi piacciono questi personaggi. Vedo infinitesime parti di Kinski in loro, cavalieri di una guerra persa in partenza. E preciso il finale, antiamericano doc, segna la sconfitta del padre babbeo, addolcita un minimo dalle ultime nostalgiche battute.
Non lo si dice nemmeno ma The Host è l’unico film di Bong ad essere stato distribuito nel Belpaese, e guarda caso è anche il più accessibile (oserei dire commerciale ma è un termine che mi nausea) per la massa. E vabbè, andiamo avanti.

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