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L’ultima fermata prima dell’inferno? No. Il lebbrosario ripreso dalla poetessa iraniana Forugh Farrokhzad è molto più prossimo alla morte che alla vita, è già l’inferno, anche se, come viene ripetuto dalla voce narrante, non è un luogo definitivo: la lebbra può essere curata.
Le immagini però non sembrano presagire niente di buono, il portone all’entrata di questa comunità isola da ciò che sta oltre, e dentro si va vanti come si può, cercando la normalità (una donna sfigurata che si trucca), tentando vanamente di pregare il proprio dio ringraziandolo per aver donato le gambe, gli occhi, le orecchie, almeno fino a quando la lebbra non si sarà mangiata tutto questo.
Frontiere d’umanità.
Sono venti minuti in cui l’Uomo si sgretola, perde pezzi, la pelle gli scivola via dalla faccia, c’è chi abbandonata la ragione balla e canta, c’è chi, come quei bambini vecchissimi con le rughe e la testa calva, resta comunque un bambino che vuole giocare e andare a scuola.
Ed è proprio nell’innocenza di una lezione scolastica che lo spettatore viene definitivamente avvolto da una nebbia scura, da una notte senza stelle.
“Fammi un elenco di cose brutte.” Chiede il maestro ad un alunno.
E lui risponde: “Testa, piedi, mani…”
Disgregazione della specie, presa coscienza del proprio orrore, della malattia, e assolutizzazione del concetto: il mio mondo è fatto di gente senza naso, senza dita, piena di bubboni e pustole rigonfie. Questo è ciò che vedo, questo è il mondo, deve aver pensato il bimbo.
Questo è ciò che anche noi abbiamo visto.
Girato nel 1963 a Tabriz, popolosa città dell’Iran settentrionale.
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