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La prima regola per fare un film biografico come si deve è quella di raccontare di un personaggio, di una storia, di cui si sa poco, di cui si deve approfondire, di cui si può provare interesse.
The Imitation Game questa regola la rispetta alla perfezione, raccontandoci non solo di un uomo che poco si conosce, ma anche di anni rimasti sepolti tra i segreti di Stato, di anni condivisi e mai divulgati da un manipolo di persone, scienziati.
Cos'hanno fatto questi scienziati? Cosa fino al 1974 il Regno Unito ha tenuto nascosto?
Un piano, un lungo progetto, che ha permesso di finire la II Guerra Mondiale 2 anni prima, di salvare circa 14 milioni di persone e soprattutto di sconfiggere Hitler.
A capo di questi scienziati, c'era un certo Alan Turing.
Mente brillante, laureato a 21 anni con il massimo dei voti, a 27 professore a Cambridge, con pubblicazioni a seguito che definire geniali è dir poco, Alan Turing decide di collaborare e di aiutare l'esercito della corona non tanto per patriottismo, no, non tanto per senso civico, ma per sfidare se stesso in quello che è a tutti gli effetti l'enigma più intricato di quel tempo: la decriptazione di Enigma, il codice tedesco, di cui gli inglesi sono entrati in possesso, che informa ogni plotone dell'asse delle mosse da fare e degli attacchi da sferrare.
Decriptarlo significherebbe conoscere in anticipo ogni spostamento, ogni piano tedesco. Ma il farlo non è assolutamente semplice, e anche se a provarci sono le menti più brillanti del Paese (tra matematici, linguisti e scacchisti), ci vorranno anni di lavoro.
The Imitation Game ci racconta questi anni, ci racconta del duro lavoro nascosto all'interno di una fabbrica di radio in cui Alan Turing non era certo il capo ideale e amato, ma che con i suoi modi di fare sbruffoni (ma a ragione) e poco amichevoli, riuscì a creare una macchina, Christopher, capace di entrare nel cuore di Enigma.
Morten Tyldum ci mostra questi anni, i dissidi interiori ed esteriori, nel modo migliore possibile, facendo delle basi di un biopic perfetto le sue basi.
Ma non si creda basti una qualche formula, una qualche regola scritta e non scritta e poi applicata, per fare di una biografia un film perfetto.
No, ci vuole quel pizzico di genio, ci vuole calibrazione, ci vuole un'anima.
E The imitation game un'anima, un genio, un equilibrio ce l'ha.
Merito prima di tutto di un Benedict Cumberbatch straordinario, la cui voce (e mi dispiace per il doppiaggio italiano) guida e incanta, la cui interpretazione, sentita e mai sopra le righe, ammalia.
Merito poi di una sceneggiatura (finita nel 2011 nella black list di Hollywood) in cui non si calca la mano sugli aspetti più morbosi di Alan Turing, non si mostra, non si sfrutta il suo essere omosessuale per creare pietà, non lo si vede baciare, stare con un uomo, non si vede il suicidio, non si vedono gli anni più disperati se non per pochi minuti, lasciando spazio invece al suo genio al lavoro, al suo passato tormentato che dà un senso al presente, al suo cercare di stare al mondo.
La calibrazione della pellicola sta anche in questo, in flashback che danno un nome alla macchina di Turing, che danno una spiegazione alla sua mania per la crittografia, che permettono di fare luce sulla personalità difficile di un uomo difficile.
Affiancato da attori inglesi doc (Matthew Good, Allen Leech di Downton Abbey e una Keira Knightley per me un po' imbruttita, sì, ma comunque convincente), Benedict rende omaggio a un uomo che solo lo scorso anno ha visto perdonata la sua colpa di essere omosessuale, un uomo che con il suo genio ha salvato milioni di vite, e che questo film, prima di raccontarcelo, di farcelo conoscere, sembra volergli chiedere nuovamente scusa.
E nel farlo, rende tutti noi, pubblico, suoi devoti studenti.
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