Partendo subito dal presupposto che “The Imitation Game” non è un brutto film, le cose che non vanno saltano subito all’occhio. La prima, la più grave: non appassiona, non ti prende, non ti tiene sul bordo della sedia con trepidazione.
Ci sono delle scene molto belle, grandi spunti di riflessione e racconta, senza troppi giri di parole, quel che è: Alan Turing era una mente geniale e brillante, e la quantità di vite che ha salvato e il grande contributo che ha dato all’umanità – aiutando gli Alleati a sconfiggere i tedeschi inventando quello che sarebbe diventato il moderno computer da cui ora state leggendo questo articolo – è pari all’immensa ingiustizia che ha subito perché omosessuale. Condannato alla castrazione chimica e costretto di fatto al suicidio, ha ricevuto la grazia postuma solo nel 2013; un “contentino” che, di fatto, suona più come l’ennesimo insulto post mortem che come una vera redenzione – ma queste sono opinioni personali.
La nota dolente del film è che racconta esattamente quello che ho scritto, e niente altro. C’è la guerra, gli Alleati sono con l’acqua alla gola e l’unico modo che hanno per sconfiggere i nazisti è decifrare l’indecifrabile “Enigma”, il codice con cui i nazisti comunicano i loro attacchi. Alan inventa una macchina in grado di decrittare il codice, gli Alleati vincono la guerra. Il tutto condito da flashback e flashforward in cui si vedono rispettivamente Alan provare il primo amore per un compagno di classe, Cristopher, nome con cui battezzerà la macchina anni dopo, e Alan affrontare l’interrogatorio della polizia in quanto omosessuale. Un breve accenno alla sua vita durante il trattamento ormonale previsto per la castrazione chimica, i cui effetti influiscono anche sulla sua mente, e una spiegazione scritta del resto della sua vita prima dei titoli di coda – fine.
“The Imitation Game” è un film che sta alle regole e porta a casa la pagnotta perché, ripeto, le scene belle ci sono, la commozione c’è e ha il pregio di raccontare la guerra con il giusto distacco senza mai sfociare nel patetico o nella lacrima facile, ma a conti fatti dice senza raccontare, mostra senza empatia, narra senza approfondire. Sembra più un “compitino” che aspira agli Oscar che un vero film atto a raccontare la storia di un grande uomo e della grande ingiustizia che l’ha accompagnato per tutta la vita.
La regia neutra e discreta c’è, i salti temporali ci sono, i vestiti d’epoca anche, i primi piani sulla Knightley che sembra ormai incastrata nell’estetica di “Espiazione” e nel ruolo della femmina che deve cambiare le regole in un mondo di maschi pure, Benedict Cumberbatch bravissimo (anche se credo che la sua migliore prova di attore sul grande schermo, finora, sia il Khan di “Into Darkness”) c’è, la musica nei punti giusti c’è, i co-attori bravi e neutri quanto basta per esaltare il protagonista ci sono, e non mancano neanche le frasi che cercano di risultare pregnanti (“Sta prestando attenzione?”, “A volte sono proprio le persone che nessuno può immaginare a fare cose che nessuno immagina”), anche se alla fine sembrano semplicemente fuori luogo; insomma, all’appello del film non manca davvero niente, tranne quel pizzico di cuore che avrebbe fatto davvero la differenza.
Daniela Montella