Nascita e ascesa di un fenomeno
I primi tre mesi del 1967 furono per Jimi Hendrix un periodo di lavoro estremo, il chitarrista che fino a quel periodo si era crogiolato tra il Greenwich Village, frequentazioni con amici “altolocati” o hippy e capelloni. Tutto quel lavoro stava ora per trasformarsi nell’alchimia più devastante della storia del rock e del blues.
Come un vulcano che per anni resta in silenzio fino al momento esatto della sua esplosione, già dall’anno precedente Hendrix si era dato da fare per svelare al mondo cosa fosse capace di creare la sua mente, ma in un modo o nell’altro si era sempre sentito rispondere: «sei forte ma non è questo che la gente vuole».
Da una delle tante conoscenze negli ambienti rock newyorkesi, Hendrix entrò nelle grazie di Linda Keith, meglio nota per essere stata all’epoca la fidanzata di Keith Richards. Purtroppo per Hendrix, il colloquio che questa gli procurò non sortì molto entusiasmo nel chitarrista degli Stones, anzi, entrambi restarono molto delusi l’uno dall’altro. Antipatia? Forse ma non credo che negli affari conti poi molto. Dunque, probabilmente invidia, o ancor più timore, non mancanza di lungimiranza. Perché Hendrix era già fortissimo, mentre un piccolo seme di timore di esser soppiantati all’improvviso serpeggiava tra i gruppi già affermati. Vedremo come cambierà il mondo del rock nell’arco di un solo anno: il 1967.
Fu comunque positivo per Hendrix perseverare su quella scia, e in breve tempo un nuovo personaggio si affacciò sulla strada del suo successo. Sarà infatti Chas Chandler, l’allora bassista degli Animals, a prendersi gli onori di aver dato vita alla carriera più fulgida e intrisa di successi in rapporto ai pochi lavori prodotti e alla brevità della vita del protagonista. Chandler procurò a Hendrix quello che gli serviva, la Experience Band, un gruppo cioè in grado di assecondare le sue funeste visioni cosmico-musicali: un bassista, Noel Redding, e un batterista, Mitch Mitchell, entrambi bianchi, nomi conosciuti sulla piazza rock inglese ma neanche lontanamente confrontabili ai “nomoni” che si stavano contendendo in quel periodo le lodi della madre patria inglese.
L’intento di Chandler era esplicitamente quello di donare a Hendrix una band sulla scia di quei supergruppi alla Cream, che avevano letteralmente sbancato con la formula del trio. Fu così che Jimi dovette abbandonare la scena americana e trasferirsi in Gran Bretagna. Fu a Londra che il 1967 di Hendrix iniziò con una escalation che lo riporterà negli States già nei mesi estivi per sfondare definitivamente e finalmente trovare quegli sponsor che erano mancati invece sulle prime. È il 1967 e non vanno dimenticati gli avvenimenti che sconvolsero quell’anno magnificamente rock. Era l’anno delle proteste contro la guerra che già da tempo scuoteva il Vietnam, ma fu anche l’anno della prima edizione del Monterey Pop Festival, dell’estate dell’amore e della droga. In questo lasso di tempo (brevissimo se si considera una lunga carriera come quella dei Rolling Stones, non per un Hendrix che poi ti muore solo cinque anni dopo), Jimi cambiò del tutto i connotati del fare e concepire musica.
Fino a quel momento aveva certo elaborato un suo stile chitarristico, ed aveva senza dubbio già calcato tantissima scena alle spalle di vari gruppi di R&B. Ma non si era ancora messo in studio con una band tutta per lui. E due anni prima che l’uomo sbarcasse sulla Luna, Hendrix aveva già varcato l’intera galassia musicale mentre per gli altri, da quel ’67 in poi sarà soprattutto un susseguirsi di tentativi, più o meno riusciti, di imitazione. Da brani leggendari come Voodoo Chile e Little Wing, all’uso di una complessa strumentazione, e non da ultimo, al carattere maniacale con cui Hendrix seguì l’approccio al missaggio. Può sembrare un lavorio da pazzi, sicché per concepire un album magari sarebbero passati due anni almeno. Non per Hendrix (e come lui tutta una schiera di artisti che produrranno anche tre lavori all’anno, e non senza qualità), che nell’arco di sette mesi pubblicò due dischi e fece almeno due tour.
Così, il 28 gennaio 1967, mentre alla University of Essex di Colchester, iniziano a muovere i primi passi quattro giovani londinesi con a capo un genio di nome Syd Barrett, all’Upper Cut, nella capitale, si registra l’esordio della Experience Hendrix. Le apparizioni si intensificarono in tutta l’Europa del nord. Una delle date fondamentali di quel mitico anno è la sera del 31 marzo 1967, quando all’Astoria Theatre di Londra, Hendrix bruciò la sua prima Fender. Poi venne ricoverato in ospedale per ustioni alle mani, ma fu una trovata pubblicitaria di non poco effetto. I resti di quella chitarra furono raccolti poi da un roadie di Hendrix e donati a Frank Zappa in occasione di un suo concerto al Miami Pop Festival nel 1968. Si tratta della “Zappa’s Hendrix Guitar”, poi ritrovata nei primi anni ’90 in una soffitta dal figlio di Frank, Dweezil, per la quale, una volta rimessa a posto, arrivò a chiedere fino a un milione di dollari a chi volesse comperarla. Sembra che la migliore fu però un’offerta telefonica che non superò i 300 mila dollari.
Quando la Experience si avvicinò alla creazione del primo disco, Are You Experienced? (sul titolo c’è sempre stata molta confusione: è con l’interrogativo o senza? I vinili della Reprise portano senza interrogativo in copertina, mentre nell’inside del disco l’interrogativo c’è. Misteri del rock), la band aveva quindi già un bel bagaglio di pezzi pronti da sfogliare sul palco, ed erano già stati registrati tre singoli (tra la fine del ’66 e il ’67) sotto la supervisione di Chandler. C’era una cover di una versione di Hey Joe di Tim Rose, che ben presto sarebbe diventata un cavallo di battaglia di Hendrix fino a lambirne la paternità. E tra questi singoli, tutti entrati nella top-ten britannica, c’era anche The Wind Cries Mary e soprattutto Purple Haze e Foxy Lady, che già contenevano quello che diventerà il celebre “Hendrix Chord”, cioè l’accordatura della chitarra con la dominante in diesis settima con l’aggiunta della nona, un accordo ambiguo, minore e maggiore allo stesso tempo, che però conferisce quel suono sporco, metallico, angolare e grezzo di tante perle del chitarrista. Erano dunque quelle le tracce che avrebbero composto lo zoccolo duro del primo album, che fu registrato agli Olympic Studios di Londra.
Are You Experienced uscì nel maggio ’67 in Gran Bretagna sotto l’etichetta Track Records, in Italia e Germania se ne occupò la Polydor, mentre negli States fu pubblicato soltanto nell’agosto dello stesso anno. Questo avvenne per un preciso motivo: Hendrix era già un nome in Europa, mentre nella sua terra natale dovrà attendere la consacrazione, che avverrà soltanto a giugno al Monterey Pop Festival. Infatti in America e in Canada, fu solamente dopo quella storica esibizione che l’etichetta Reprise Records decise di pubblicare l’album, ma con delle significative modifiche, anche riguardo alla copertina. Red House, Can You See Me e Remember lasciarono spazio ai singoli inglesi e anche l’ordine originale dei brani fu alterato. Se oggi ci si scandalizza per manomissioni come queste, allora era quasi abitudinario. Meno lo fu ciò che avvenne sulla copertina uscita in Sudadfrica. A causa del duro regime dell’Apartheid, la foto di un nero (Hendrix) in mezzo a due bianchi (Redding e Mitchell), potendo fare scandalo, lasciò invece il posto alla sola scritta del nome del gruppo corredata dal titolo del disco senza alcun riferimento fotografico.
Are You Experienced racchiude già tutte le caratteristiche di un Hendrix maturo, che da quel momento ne svilupperà arditamente le soluzioni, arrivando a toccare il jazz e il suo carattere estemporaneo, fino ad allungare inevitabilmente la durata dei pezzi (per questo fu costretto a far fuori Chandler che invece amava il formato radiofonico). In virtù di ciò, non solo questo album entrò a buon diritto tra le pietre miliari del rock, ma molti critici ancora lo considerano il miglior album d’esordio nella storia del rock.
Anche grazie alle tante date fuori dal Regno Unito, già a giugno Hendrix era talmente famoso in Europa che il suo nome compariva tra gli appetibili al primo Festival Internazionale Pop di Monterey, dall’altra parte dell’Oceano, in quella terra che soltanto pochi mesi dopo averla lasciata già gli sembrava lontana anni luce. L’evento si inseriva nella calda estate dell’amore e prendeva spunto dallo Human Be-in andato in scena nel gennaio ’67 al Golden Gate Park di San Francisco. Ma mentre quello era stato concepito come una manifestazione aperta a tutti, il Monterey avrebbe avuto più la fisionomia di un evento organizzato, con una regia mirata. Fu proprio l’ideatore dello Human Be-in a farsi da patrono a quello che sarebbe stato il concerto rock dell’anno.
La presenza di Hendrix a quell’appuntamento fu molto facilitata invece da un altro nome degli Stones, Brian Jones, che era arrivato in California proprio per riprendere quel primo festival e con l’occasione si fece da garante al chitarrista di Seattle. Poco prima dell’ingresso in scena della Experience, annunciò qualcosa che suona pressappoco così: «Direttamente dall’Inghilterra, per la prima volta negli States, il più eccitante chitarrista che abbia mai ascoltato, Jimi Hendrix, The Jimi Hendrix Experience». Col senno di poi, direi abbastanza umiliante per gli americani, Hendrix entrava nella categoria di quel fenomeno che oggi chiameremmo “fuga dei cervelli”.
Hendrix era infatti già un dio in Europa, ma in America si continuavano a coltivare i pionieri della british invasion, oltre a Beatles e Rolling Stones, mentre di americano spopolava Frank Zappa. Jimi e Laura Nyro erano le vere novità del festival, che invece presentava per il resto gruppi ormai affermati. Dall’Inghilterra arrivarono gli Who, che anticiparono la Experience Band e di questo si narra anche di una furibonda lite tra le due parti, che tra l’altro facevano parte della stessa etichetta. Non so quanto sia vera la storia, e quando nel rock scrivono “leggenda vuole” nove volte su dieci è il frutto di un’allucinazione. Sta di fatto che quando Townshend e compagni uscirono di scena e Jones annunciò Hendrix, gran parte del pubblico ancora viaggiava sulle note di My Generation e mai e poi mai avrebbe immaginato che sul palco sarebbe arrivato qualcuno più sfrontato e trasgressivo di quei quattro diavoli che spaccavano le chitarre sugli amplificatori.
Hendrix si abbandonò in interpretazioni estatico-dionosiache, posseduto dai fumi delle droghe sintetiche che sconvolgevano anche gli astanti (Hey Joe venne addirittura quasi recitata per scostarsi dai cliché e dalla fin troppo conosciuta versione originale), ma fece anche di più degli Who. Resterà un’icona scolpita nella mente dell’umanità la sua chitarra suonata con tutto, anche con i denti, e poi sacrificata alle fiamme, con quei suoni ancora vividi di brace acustica, un’icona che non lascerà più la faccia di Hendrix. Per la cronaca, a chi interessi, i resti della chitarra sono attualmente esposti all’Experience Music Project di Seattle.
In quel periodo la Experience Hendrix già era al lavoro per pubblicare il secondo album, che nella testa del leader del gruppo sarebbe dovuto essere molto più innovativo rispetto al rock blues del precedente lavoro. A renderlo ancora più notevole fu l’incontro con le Mothers di Frank Zappa, che fu il primo a consigliargli l’utilizzo del pedale wah. Nel mentre si moltiplicarono le date dei concerti e la Experience spesso fu accompagnata dai Move. Due dei membri di questa band, Roy Wood e Trevor Burton, verranno ricompensati con la fama eterna quando Hendrix gli permise di prestare le loro voci nel coro di You Got Me Floatin. Si tratta di un brano con un assolo di chitarra girato al contrario che apre il secondo lato di Axis: As Bold As Love, la seconda fatica della Experience Hendrix Band uscita l’1 dicembre 1967.
A quel punto la critica americana, che fino ad allora aveva trattato Hendrix come una potenziale meteora, stavolta lo ricoperse di lodi e il successo fu duraturo. Se il precedente album era il frutto delle esperienze giovanili del chitarrista, ricco di cover di classici blues, seppur suonati con distorsioni mai udite prima, con questo nuovo lavoro Hendrix gettava un sasso nello stagno.
Nel video che segue lo troviamo impegnato in un’apparizione all’Olympic Theater di Londra, alle prese con una già delineata Foxy Lady (il secondo brano) ma soprattutto con un’altra cover meno nota del repertorio hendrixiano, la bellissima Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles. Completamente rivisitata e distorta, pedale e leva che giocano con un Hendrix già pienamente calato in sinuosi amplessi mimati con la chitarra.
Eravamo già nel dicembre 1967 e Axis era appena disponibile nei negozi, andando presto a ruba. E se Are You Experienced in Gran Bretagna raggiunse in breve tempo la terza posizione nelle classifiche di vendita, il disco successivo si piazzò al secondo posto, soppiantato soltanto da Sgt. Pepper’s dei Beatles. Axis è già un disco pieno di accorgimenti tecnici, continue sovraincisioni di assolo, riverberi asfissianti, una batteria che in brani quale l’omonima ultima traccia suona come colpi di frusta nel petto di chi ascolta.
In un’intervista (poi inclusa nel film See My Music Talking), il musicista, in occasione della presentazione del disco in Inghilterra, per la prima volta affronta pubblicamente il tema della sua esperienza da parà: «…once you get out there everything is so quiet, all you hear is the breezes-s-s-s…». Sarebbe questa, stando ad alcune teorie, la fonte su cui indagare per trovare l’ispirazione allo “spacy sound” che caratterizza l’intero Axis. A tratti, però, più che il suono dell’etere, il disco sembra cosparso di carburante e il suono della Fender assume i connotati di un motore di un jet. Eppure sia Hendrix che il suo storico tecnico, Eddie Kramer, in seguito sosterranno di non essere rimasti del tutto soddisfatti del risultato finale.
Ciò è dovuto a un fatto in particolare: immaginate Picasso che dipinge Guernica dopo settimane di lavoro e si trova costretto a farne un’altra da principio tutta in una notte. È quanto sconvolse la travagliata gestazione di Axis: As Bold As Love. Il lavoro era praticamente tutto fatto, ma la sera prima della consegna dei nastri per la stampa dell’Lp, Hendrix dimenticò il master tape già missato del lato A del disco sul sedile posteriore di un taxi. Quel nastro non venne mai più alla luce, e forse ancora oggi, quel fortunato tassista si godrà alle nostre spalle uno dei più importanti (se non il più importante) inediti della storia della musica. Jimi lavorò tutta la notte e in 12 ore o poco più missò da capo l’intera faccia A.
In più, per un errore quantomai fanciullesco, noie derivarono anche dalla copertina. Era infatti stato richiesto esplicitamente al disegnatore Roger Law di eseguire un ritratto dei tre membri della band con contenuti che evidenziassero il lato “indiano americano” del chitarrista. Ma, con immaginabile stupore, Hendrix si trovò di fronte una copertina che lo ritraeva vestito, ed in atteggiamenti, da divinità induiste Visnu e Durga. Quelli della Reprise avevano capito un’altra India, da allora (e per questo sono così affascinanti gli errori nella storia), Jimi conserverà sempre un pizzico di sapore d’oriente, che lo rende un oggetto unico e raro, imitato e venerato in ogni angolo del globo.