Trinity Of Falsehood è il secondo album dei californiani The Kennedy Veil, dediti a un modern death metal che si adatta alla contemporaneità senza scenderci troppo a patti, suonato nota per nota come se camminassero sui carboni ardenti o fuggissero dai fantasmi dell’old school, per liberarsi dalla ripetitività, dagli incastri di temi e tecniche passati. Il risultato finale consiste in undici brani di death metal evoluto: i quattro alleggeriscono alcuni carichi per rompere l’incantesimo e non cadere nella trappola dell’emulazione, spingendo sull’acceleratore. Le parti di chitarra e il drumming dominano le strutture e l’umore delle canzoni: Kc Childers costruisce una fitta rete di riff, maniacali ma lucidi, spesso non basati sull’effetto droppato ma rimpolpati dalle frequenze più alte, rendendoli brutal ed esagerati come in “Enslave.Defile.Erase”; la ritmica non dà tregua e non trova pace, il doppio pedale e il rullante si rincorrono in un circolo molto vizioso, per una lotta intestina d’alto livello, di cui l’ascoltatore può solo prendere atto. I cambi di tempo si basano su minime variazioni dei temi principali, le ritmiche modificano la loro rotta in maniera indolore come in “King Of Slaves” o con progressioni stile “avanzata di truppe” come in “Seventh Circle” e “Disciples Of Dead Aeons”. A completare il quadro a tinte forti ci sono le vocals: un growl profondo che non si distrae un attimo da quello che succede e che, a seconda dei casi, diventa eco dei riff e delle dinamiche dei brani oppure è capace di tenere in pugno la situazione, suonando la carica come in “Necrotic Gospel” e “Perfidia”, a volte perfino strizzando l’occhio ad alcune tecniche di fraseggio postmetal/hardcore. I The Kennedy Veil si candidano a nuovi messia del death metal e, con Trinity Of Falsehood, propongono un album molto tecnico ma che scorre bene, anche non possedendo un vero e proprio apice/abisso o nucleo caldo, proprio perché tutti gli elementi orbitano su stessi o intorno agli altri. Per comprendere la sua complessità deve essere paradossalmente preso nel suo insieme e assimilato come un’esperienza fuggevole e granitica allo stesso tempo.
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