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La storia vera di Aung San Suu Kyi, paladina birmana per i diritti umani e per l'instaurazione di un regime democratico nel suo paese, in contrasto col regime militare tuttora in essere. Premio Nobel per la pace nel 1991, che non poté ritirare personalmente essendo all'epoca agli arresti domiciliari in un forzato isolamento sociale, è uno dei personaggi simbolo del pacifismo non-violento sulle orme di esempi che lei ammira infinitamente, come quello del Mahatma Gandhi e di Martin Luther King.
Storia che parte dall'uccisione del padre, eroe nazionale, nel 1947 da parte di militari golpisti quando lei era ancora bambina, fino ad oggi. Non mi metto a riscrivere tutta la vicenda, e poi il film è lungo ben 155' e ricco di avvenimenti, un ottimo modo per venirne a conoscenza.
Bella la locandina originale che richiama la colorata ed arancione Birmania, ma altrettanto lo è quella italiana, nera come la terribile scena che viene ritratta, uno dei momenti più tesi.
Uscendo dal cinema ho sentito considerazioni del tipo "che coraggio a fare un film del genere...", come se chissà quali pressioni contrarie possa aver subito la produzione. Non penso proprio ci siano state grandi difficoltà. L'orrore politico birmano è pari in intensità alla bellezza di quel paese affatto piccolo, stretto fra l'India e la Cina, ed è un orrore denunciato da tutti. Bisogna al limite chiedersi come mai nessuno s'è posto il problema di "esportare democrazia" in quel povero e martoriato paese. C'è petrolio? Non abbastanza da ripagare una guerra. Altre materie prime significative? Vedi petrolio. E allora? E' un importante crocevia per il traffico di oppio e droghe derivate, cosa non da poco dal momento che la droga è uno dei sistemi più importanti per l'esercizio del potere in tutto il pianeta. Questo traffico è curato e gestito direttamente dai militari. Occorre dire altro?
Ho fatto una piccola ed ovvia considerazione, e tornando a parlare del film aggiungo che si può desumere da alcune scene, anche se non ci si calca molto la mano. Il bravo Luc Besson s'è concesso poco in spettacolarizzazioni della violenza e delle atrocità, non quanto potrebbe e saprebbe fare, che comunque vengono tutte illustrate. Il film resta concentrato, oltre ad illustrare vicende birmane del periodo, a parlare dell'attività politica della protagonista e dei suoi collaboratori (tutti perseguitati), soprattutto sul raccontare la vita di San Suu Kyi e della sua famiglia che vive ad Oxford con particolare attenzione al marito Micheal Aris (professore universitario, morto di cancro nel 1999) che ha avuto un ruolo fondamentale. Una scelta che non m'è dispiaciuta perché se le vicende politiche e sociali si possono facilmente reperire da vari media, quelle private non sono altrettanto note. Emerge quel tratto comune di eroi come lei o come i citati Gandhi e King: lo diventano quasi per caso, semplicemente seguendo dettati di moralità umana che non possono reprimere. Gandhi si recò in Sud Africa per affari, poi lì scoprì le disumane condizioni causate dal razzismo e da lì poi, già famoso, andò in India a compiere quello che sappiamo. King era sensibile agli argomenti dei diritti umani e di quelli dei neri in particolare, ma senza Rosa Parks e il Boicottaggio dei bus a Montgomery non possiamo sapere che storia avrebbe avuto. San Suu Kyi viveva in serenità ed agiatezza ad Oxford, e tornò in Birmania per assistere la madre in fin di vita, ma dovette suo malgrado assistere anche a molto altro...
Lo metto nel Partenone per la grande importanza della vicenda. Non qualcosa di trascorso in tempi lontani ma di attualità. Per gusto personale avrei preferito qualcosa di anche più crudo, con meno musiche che vanno "americanamente" ad enfatizzare i momenti più toccanti i quali, a mio avviso, non avevano bisogno di questi artifizi per trasmettere emotività. Ma va bene, passi, è un film che punta a poter essere accolto da quanto più pubblico possibile, quindi chiudo con piacere un occhio e nello specifico anche le orecchie.
Visione consigliatissima.
Robydick
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