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Premesso ciò, valutando singolarmente The Land of Hope l’opinione è quella di trovarci al cospetto di un’opera pensata e girata con in mente un concetto ben preciso: quello dell’esportabilità, e probabilmente non è tanto un discorso economico ad aver fatto propendere Sono per questa strada, quanto (supposizione mia) la necessità di far conoscere ad un più vasto numero di spettatori la tragedia del terremoto e tutti gli infausti effetti da esso derivati (tsunami, allarme nucleare, ecc.). Tale intento comporta però una via di trasmissione che si adagia su frequenze che hanno del televisivo, per non dire del soapoperistico; è vero che per l’ennesima volta Sono pone al centro del palcoscenico la Famiglia con tutti i relativi legami spezzati e risaldati, ma la mancanza di quel preciso ragionare per eccesso, di quella esacerbazione dei meccanismi consanguinei che giungeva a capilinea annichilenti come l’incesto o il parricidio senza che vi fosse il minimo puzzo di gratuità, sono elementi che pesano enormemente nell’economia della storia, perché quello che lo schermo ci restituisce è un racconto orizzontale, che si riduce minuto dopo minuto fino a diventare filmetto, in costante dialogo con la banale metafora di un Paese pronto a rialzarsi passo dopo passo(i padri rimangono, i figli vanno), sorprendentemente (in negativo) orientato nel tentativo di strappare qualche lacrima con procedure che proprio non riescono a conciliarsi né con il furore sononiano, né con la dignità melodrammatica che oggi il cinema dovrebbe possedere, e l’ultimo abbraccio padre-figlio è esattamente la “pietra dello scandalo” in merito alla questione.
Se ripensiamo a Himizu(2011) e all’esondante vitalità che lo permeava, la tematizzazione del sisma nipponico, anche se posta in itinereall’interno della pellicola e non affrontata direttamente, appare molto più convincente della corrispettiva trattazione di The Land of Hope dove sebbene faccia da sfondo principale alla vicenda, resta intrappolata in una serie di paletti sminuenti che ne infiacchiscono le potenzialità: il dramma è romanzato, il sentimento è mellifluo, la poesia flebile, un possibile accento subito sedato (la psicosi della ragazza verso le radiazioni, il vero Sono avrebbe dato il meglio di sé con una donna incinta nel bel mezzo di una fuga radioattiva). Forse mosso da uno spirito nazionalistico il regista ha preferito accomodare l’autorialità per oltrepassare la nicchia, il risultato è però questo, e chi ha sete di un cinema intransigente, attento al cosa ma soprattutto al come, non potrà che archiviare celermente la visione.
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