Febbraio 2010, giorno 16.
Me ne uscii segnalandovi un trailer promettente. Questo qua:
Cominciate a ricordare?
Pesco qualche citazione da quel post:
“A mio avviso, questo è il classico film sul filo del rasoio: può essere un capolavoro oppure una bellissima ciofeca.” by elgraeco
“Non mi sembra male… anche se dalle preview e dai trailer paiono tutti capolavori” by Alex McNab
“Spero che tutta questa attesa sia più che ripagata, sennò li vado a prendere, sceneggiatore e regista… a bastonate.” by elgraeco
Mi vengono in mente due cose:
1) è passato quasi un anno e il tempo corre veloce
2) a Febbraio ero molto meno sboccato.
Nessuna delle due è importante, ma ci stanno entrambe. Poi c’è che in questo film si aggira la figlia di Rupert Giles.
E io me ne sono innamorato.
E, se non l’avete ancora capito, sì, sono uno dall’innamoramento facile. Anche se questo non la giustifica mica, Daisy Head.
Non la giustifica perché The Last Seven è il tipico film pretenzioso e presuntuoso che si illude di saperla raccontare solo lui una certa storia.
L’ombra di Kafka si allunga su un intreccio sdentato.
L’incipit, come del resto avete potuto intuire dal trailer, è di quelli che spiazzano.
Ma magari, oltre McNab che pensa giustamente che sembra un capolavoro, uno ci spera pure, dopo un sacco di film tendenti allo schifo, di imbattersi in un lavoro coraggioso, ambizioso e, quel che più conta, valido.
Ma i rischi impliciti in un’operazione come questa erano tutti lì, davanti ai nostri occhi, fin dal trailer. Era come se già fossero scorsi dei sottotitoli invisibili ad ammonirci a non abbassare la guardia.
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07:36
Il lavoro è firmato da due esordienti, scritto da John Stanley e diretto da Imran Naqvi.
Si era parlato di sette protagonisti rappresentanti di sette tipi umani. Si era assaporata la prospettiva di un mistero non troppo indecifrabile, a dire il vero e, diciamocela tutta, si era gustata la prospettiva che, per una volta, Londra venisse svuotata non per un’infezione incontrollabile, ma per un’altra ragione, una qualunque che non preludesse agli zombie.
William Blake (Simon Phillips) è il primo a comparire. Si sveglia nel bel mezzo della strada nell’esatto momento in cui il suo orologio si ferma, alle 07:36 minuti esatti.
Passeggia per Londra un po’ spaesato. Una Londra in cui proprio ogni presenza umana è stata cancellata.
Le infrastrutture, i veicoli, la corrente elettrica, non manca niente, tranne sette milioni di persone.
I primi dubbi vengono tutti nei primi minuti. Sono dubbi ad ampio raggio che investono la legittimità delle riprese di una Londra vuota, sia la verosimiglianza del comportamento di Blake, oltre che il suo stesso nome, sia l’orologio che si è fermato.
Panorami d’abbandono. Non c’è nessuno al mondo più di me che li apprezza. Stanno a rappresentare tutto con niente.
Una città vuota è la quintessenza dell’umana inconsistenza. Non c’è miglior simbolo, per me, per rappresentare la vacuità unita alla sfrenata ambizione umana, che una metropoli che manca del proprio artefice.
Un uomo solo che cammina dentro di essa, riscoprendola, è un uomo che vuole comprendere innanzitutto sé stesso, prima ancora di capire le ragioni per cui si trova lì.
Ma quanto di questa Londra è reale e quanto è frutto di abile manipolazione in CGI?
Nulla di male, nella seconda ipotesi. È solo che, in quel caso, è meno faticata, e perde di fascino.
Blake se ne va a spasso. Presumibilmente per un’ora. Ogni città, all’alba, è deserta, ma sta per svegliarsi.
Quanto ci mettereste voi, in quella situazione, a rendervi conto che non c’è nessuno? Neanche un cane, o un uccello, niente di niente. Quanto? Cinque o dieci minuti? Quanto ancora prima di andare fuori di testa?
Bene, sarà la forza del simbolismo insita nel suo nome, ma il buon Blake se ne va a spasso come nulla fosse per un’enormità. Tale da sbriciolare qualsiasi sospensione d’incredulità.
I telefoni non funzionano, l’orologio è fermo. Ma il sole non lo è. Anche se il tempo pare esserlo. La notte non cala mai. Quasi a suggerire che, nel caso in cui le lancette dovessero tornare a girare, tutto tornerebbe alla normalità.
Inutile ricordarvi qual è la causa più probabile, dopo l’esaurimento della batteria, dell’arresto di un orologio…
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L’isola
Londra è enorme. Eppure i sette superstiti, in due gruppi di quattro e tre, si incontrano dopo un breve intervallo, sufficiente a farceli odiare tutti.
ll Soldato, L’Analista, La Straniera, Il Credente, Il Leader, Il Politico, La Teenager. Voi, a restare intrappolati in una realtà ineludibile con questi tipi umani, in quanto tempo la fareste finita?
Buona domanda.
Ma il regista si diverte a depistare lasciando annusare qualche buon accenno horror, che cade sotto forma di visione davanti agli occhi del solito Blake, nomen omen.
Guizzi che giungono in ritardo di qualche decina di anni.
La mancanza della seppur minima traccia di informazioni, il vagare sospetto e inconcludente dei sette in cerca di uno scopo e della loro stessa memoria, l’alternarsi di continui flashback, in una retrospettiva che, non incredibilmente, li vede tutti coinvolti in qualcosa di grave accaduta prima e che ne ha cagionato la loro unione in questa realtà poi, in un’epoca tiranneggiata da Lost, per citare solo il paragone più recente, perde, di fatto, qualsiasi possibilità di risultare interessante.
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L’insostenibile leggerezza dell’essere
C’è una cosa che non capisco degli esordienti. Non di tutti, ma di sicuro dei più altezzosi. Il volersi cimentare con l’esistenzialismo. Strada che conduce, ineluttabilmente, verso minestroni inverecondi a base di psicanalisi, realtà conflittuali, cultura, rimorso e religione.
L’imparzialità, elemento imprescindibile per trattare simile materia, lascia sempre il posto al tentativo di indurre lo spettatore a propendere per il volemose bene in salsa pseudo-mistica. I risultati di tale ingerenza sono disastrosi. Tanto quanto la spaventosa ovvietà dell’antefatto che vede i sette coinvolti in seduta corale.
I soliti destini che si incrociano, chissà perché, in un ristorante. I soliti cattivi che devono essere puniti. I soliti innocenti che, invece, si sveglieranno in extremis, per tornare tra i vivi ricchi di una morale stantia, ma nuova di zecca, ancora avvolta nel cellophane.
Gli occhioni blu di Daisy bucano lo schermo. Lo fanno davvero. Tali da rivaleggiare con quelli di un’altra presenza fissa qui nel blog.
Ma sul serio non servono a nulla, se non a sperare di rivederli in qualcosa che abbia il vago sapore di un film.
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