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THE LOBSTER – L’amore al ritmo delle aragoste

Creato il 19 febbraio 2016 da Rivista Fralerighe @RivFralerighe

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Film tra i più interessanti del 2015, diretto dal greco Yorgos Lanthimos (già autore dell’inquietante Kynodontas) e interpretato tra gli altri da attori internazionali del calibro di Colin Farrell e Rachel Weisz, The Lobster racconta di una società nella quale l’individualità, intesa come possibilità di essere ciò che si è in assoluta libertà, è vista come una pericolosa devianza, foriera di caos e disordine, da reprimere e punire, con la morte se necessario.

Il film si apre nel silenzio di una campagna dove placidi e tranquilli ruminano alcuni asini. Poco dopo, il silenzio è interrotto dal suono di un motore. Una macchina si ferma sul ciglio della strada e ne esce una donna, armata di pistola. La donna, la cui calma tradisce una certa emozione, si ferma davanti a uno degli animali che la osserva con pacata indifferenza. La vediamo puntare la pistola alla fronte dell’animale e premere il grilletto. Dopo essersi accertata della morte dell’asino, la donna rimonta in macchina e riparte, lasciandosi alle spalle la tranquillità del campo e le altre creature che, estranee a quanto appena accaduto al loro simile, continuano a masticare erba.
A questa prima, disturbante scena, se ne sostituisce una piuttosto ordinaria; veniamo dirottati in un appartamento, bianchissimo e anonimo, nel quale si sta consumando uno dei tanti fatti della vita: David (Farrell) ha appena appreso da sua moglie che lei non lo ama più e lo sta lasciando per un altro uomo. Ma l’ordinarietà dell’evento si ferma a queste prime battute. Non più parte di una coppia, David deve andarsene dall’appartamento e viene dirottato in un resort dove avrà quaranta giorni di tempo per trovare la propria anima gemella. In caso di fallimento, verrà trasformato in un animale a sua scelta. Da cui l’aragosta del titolo.
Ma non è tutto. Nella lenta progressione del film scopriamo, infatti, che nell’immenso bosco che circonda l’albergo vivono i “solitari”, uomini e donne che sono riusciti a fuggire e che da allora bivaccano tra le fratte, fungendo da occasionale “cacciagione” per i membri dell’hotel, che per ogni solitario catturato ottengono un giorno in più di umanità.
Questa tribù di fuggiaschi, all’apparenza un’oasi di desiderabile libertà, si rivela però non essere molto diversa, in quanto a repressione dell’individualità, della “società delle coppie”.
Infatti, se nel mondo in cui il protagonista vive, stare da soli non è un’opzione contemplata, al contrario, nella “tribù dei solitari” è lo stare in coppia ad essere vietato e severamente punito con una crudeltà pari e speculare a quella praticata nel resort contro l’autoerotismo.

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La cosa che balza agli occhi, durante le due ore di proiezione del film, è che in un film che parla di amore è assente ogni tipo di sentimento; la stessa recitazione degli attori assume i tratti di una cantilena: dialoghi, abbracci e rapporti sessuali sono meccanizzati e purgati di ogni traccia di emozione.
La maggior parte delle coppie che si formano o sono già formate basano la loro unione sulla congruenza: l’appassionato di matematica si associa con la titolare di un master in matematica; il chitarrista con un’altra chitarrista; il miope con la miope ecc… Così che ciascuna parte del rapporto di coppia finisce per assomigliare al pezzo di un puzzle: senza sentimenti ma con la certezza di essere in qualche modo simili. È un’associazione che non ha nulla a che vedere col trasporto o la passione.
Un concetto tanto estremizzato che una delle ospiti del resort, ossessionata dai capelli, rifiuterà il corteggiamento del protagonista, che pure la salverebbe dalla metamorfosi, perché non può garantirle che non diventerà calvo, finendo per essere trasformata in un cavallo dalla meravigliosa criniera.

Ed è tanto radicata questa pratica che, quando David si innamorerà genuinamente di una “solitaria” (Rachel Weisz), e questa subirà una menomazione importante, lui si troverà costretto a decidere se seguire la stessa sorte della compagna o rinunciare, dichiarando di fatto di non amarla abbastanza da voler far combaciare la sua vita con quella di lei.

The Lobster è un film dalla recitazione monocorde, alienata. Inseguimenti, morti e torture, persino i rapporti sessuali sono una piatta sequenza di azioni, perché la società in cui i personaggi vivono è una costruzione di coppie ordinate ma anaffettive; un’organizzazione che ricorda quella degli insetti e nella quale vale la regola: “stare insieme rende efficienti, stare da soli porta morte, criminalità e disordini.” Mentre nella “tribù dei solitari” vale l’esatto opposto: la solitudine rende il gruppo forte perché, pensando solo a se stesso, ciascuno mette in salvo un pezzo del gruppo.
Quella tracciata in The Lobster è una distopia surreale, originale e cruenta che omaggia e cita a più riprese 1984 di Orwell, a cominciare dal numero di camera assegnato al protagonista: la stanza 101.

Un film dilatato, violento e straniante con lunghe sequenze durante le quali accade poco o nulla e con una recitazione monotona e disturbante che ricalca in più parti la progressione di Kynodontas.
Non è né un film facile né adatto a tutti.
Ma è un film la cui visione lascia addosso una sensazione di soddisfazione difficile da provare di questi tempi.

di Federica Leonardi



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