
Abbiamo tutti bisogno di un maestro. Vivere senza una guida è impossibile.
Lo dice chiaro e tondo Philipp Seymour Hoffman a Joaquin Phoenix nella scena pre-finale che vede i due attori confrontarsi faccia a faccia per l’ultima volta. È un’ossessione il rapporto che lega Lancaster Dodd, il “The Master” del titolo interpretato da Hoffman, a Freddie, il reduce di guerra disturbato e violento impersonato da Joaquin Phoenix. Due personalità apparentemente opposte, ma proprio per questo simili, uniti da una scintilla d’amore che scocca in Lancaster prima ancora che lo stremato Freddie se ne renda conto, occupato a riprendersi da un’altra notte finita tra alcool e fughe.
Due personaggi che non hanno ancora trovato una fissa dimora: uno cerca di reinserirsi nel mondo tentando senza successo di contenere la sua insanita mentale, l’altro vive praticamente sulla propria nave, viaggiando da una città all'altra dell’America con lo scopo di esportare la sua fede che ancora fatica a venire accettata. La fede esplorata, ormai intesa a tutti, è Scientology, mai nominata apertamente nel corso della pellicola ma ampiamente suggerita dalle sedute e dalle “teorie” di Lancaster che di continuo rimanda al nostro corpo come al contenitore di un’anima che non cesserà mai di morire, ma continuerà ad esistere e a trovare sempre nuovi “contenitori” destinati ad accoglierla. Una sorta di viaggio spirituale, che con le sue tecniche dovrebbe consentire di andare anche indietro nel tempo e curare ferite ancora aperte procurate in contenitori precedenti. Ipotesi difficili da rendere tangibili, a meno che, la sperimentazione in un soggetto cronico come Freddie - etichettato dalla maggior parte degli adepti del Maestro come una causa persa e da lasciare andare - non porti a dei risultati positivi.
Di sintomi che “The Master” sia molto più di quello che riesce a emergere da una prima visione ce ne sono tantissimi, e sono tutti legati ai colloqui intensi che vedono Hoffman interrogare i suoi pazienti, Phoenix su tutti. Eppure questi sintomi rimangono li, slacciati in maniera larga l’uno dall'altro, difficili da raggruppare e osservare a dovere. Una mancanza che se non è il regista stesso a coprire non può certo essere colmata unicamente dallo spettatore.
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