Delle varie opinioni consultabili in Rete all’incirca tutte citano Jules Verne come fonte di ispirazione per il regista. Ciò è ammissibile perché il concept avventuriero annovera dentro di sé figure classiche (per il genere) come il capitano della nave, i suoi mozzi o lo stesso Morello che da narratore interno mostra allo spettatore la sua profondità umana. Le impressioni letterarie si accompagnano a quelle cinematografiche perché sul piano estetico si burtoneggia abbastanza apertamente e la tecnica di rappresentazione applicata, una trasposizione digitale del teatro Wayang Kulit [1], certifica una malinconica atmosfera che in effetti ricorda Burton. C’è dell’altro: specificatamente una convivenza anacronistica tra vecchio e nuovo che affascina: le astronavi sono a vapore, la navigazione dipende dalle bussole ma al contempo è possibile videocomunicare con una persona lontana. Questo Lucas riempie il piano dell’inventiva, trova gli accenti giusti (le ferite dei malati spiccano nella bicromia scenica), e l’Immagine giusta (il primo e unico volto privo di ombra).
Appurato il tema del viaggio, cardine evidente solo che per il ruolo del protagonista, una specie di navigatore, si è optato per un livello introspettivo delineato in più sfaccettature. La fertilità dell’opera, sebbene non così roboante, è comunque registrabile, in particolare nelle collusioni fra sentimento/redenzione/scienza; i tre elementi rapportati gli uni agli altri valorizzano un lavoro che si dimostra indipendente dalle architetture dell’avventura, e lo sottolinea l’apertura di un finale non esattamente conciliante che dice sì al retrogusto dell’indeterminatezza e no ad un pacifico happy end. ______[1] Si tratta del teatro delle ombre indonesiano. Le figure, sostenute da asticelle, vengono fatte muovere dietro ad un telo di cotone. Una fonte di luce, un tempo erano lampade ad olio, si occupa di proiettare l’ombra di tali figure sulla superficie.