Uno studio di registrazione nel cuore di Catania. Qui mi aspetta Davide Combusti, in arte The Niro, per un’intervista esclusiva con la quale cercherò di dare uno sguardo approfondito al suo recente passato e di riferirvi dei suoi progetti attuali ma anche di quelli futuri. Entrato nello studio, respiro da subito l’aria della musica importante, di qualità; nella sala d’attesa fa bella mostra di sé una libreria con diversi volumi dedicati ad alcuni gruppi storici e una manciata di dischi in vinile, mentre ai muri si scorgono locandine promozionali degli album del boss Cesare Basile. Davide è al lavoro. Agli occhi del profano, un lavoro particolarmente impegnativo perché per queste incisioni ha deciso di suonare tutti gli strumenti da solo. Vedendolo all’opera però sembra che per lui sia la cosa più naturale del mondo: passa dalla sala di registrazione, dove ha appena suonato la traccia di pianoforte, a quella di regia per assicurarsi assieme al fonico che tutto sia andato per il verso giusto; poi, ritorna indietro e incide ad una ad una tutte le percussioni ed infine termina con varie tracce di cori. È uno da “buona la prima o quasi” lui, ma ovviamente il risultato finale sarà accurato ed altamente professionale. Finalmente, terminata l’impegnativa session, The Niro mi accoglie stanco ma sorridente in sala d’incisione, e, circondati da strumenti di ogni tempo e tipo, facciamo una bella chiacchierata sulla sua breve ma intensa carriera.
Sei in grado di identificare l’evento o il momento in cui sei riuscito a sfondare nel mondo musicale?
«L’evento in cui sono cambiate le cose, ma non l’avevo identificato, fu il concerto di Carmen Consoli al Camden Centre di Londra. C’era l’emissario della Universal inglese che mi aveva notato e da lì hanno cominciato a seguirmi. L’evento in cui ho realizzato di essere riuscito a salire quel gradino che mi ha portato a realizzare degli album fu quando aprii il concerto di Amy Winehouse a Milano: quel giorno ho firmato il contratto con la Universal che mi avrebbe legato all’etichetta per due dischi».
Cosa ne pensa la tua famiglia del tuo successo?
«Inizialmente mio padre non mi ha appoggiato granché, mia madre un po’ di più. Poi, quando le cose hanno cominciato ad andare bene, anche mio padre ha cominciato a seguirmi ed appoggiarmi. Ora sono entrambi contenti».
Chi sono i tuoi idoli e gli artisti che più ti hanno ispirato musicalmente?
«Idoli non ne ho. Nel senso che non sono mai stato proprio fan di qualcuno. A chi mi sono ispirato? Vediamo, pure questo è difficile, perché sento talmente tante cose che probabilmente quando poi le tiro fuori si capisce quello che ho ascoltato; io sono un frullatore, prendo le cose, le mastico, le elaboro e poi le tiro fuori istintivamente senza pensare a chi dire grazie, quindi dico grazie alla musica in generale. Posso sentire di tutto, dal rock al folk, dal reggae al jazz, al blues, trovo qualunque cosa potenzialmente interessante e non mi pongo limiti né nell’ascoltare né nel creare; poi, ovviamente, non mi piace tutto, anzi mi piace veramente poca roba, però dal punto di vista dell’ispirazione ogni artista ha sempre qualcosa di particolare che può colpirti o meno, quindi probabilmente certe cose le prendo senza sapere perché. Anche il cinema è una grande fonte di ispirazione».
Infatti stavo proprio per chiederti quali sono i tuoi film e dischi preferiti…
«Pure qui è difficile! Mi piace molto Baci rubati di Truffaut (NdR non è forse un caso che un brano del suo primo album si intitoli proprio “Baisers volés”, titolo originale della pellicola), la sua poetica; Cul-de-sac di Polanski; andando più sul commerciale Il principe cerca moglie di John Landis mi piace da morire, l’ho visto 500 volte, so tutte le battute a memoria, ma anche Frankenstein Junior. Il cinema lo prendo dal trash al film d’autore, cerco di vedere tutto, anche nel brutto c’è del bello. Dischi preferiti? Figure 8 di Elliott Smith, The Hour Of Bewilderbeast di Badly Drawn Boy, il primo album omonimo di Tim Buckley».
Come definiresti il tuo stile a chi non ti conosce?
«Un “melting pot” di suoni! Questa è la domanda più difficile, non sono ancora riuscito ad elaborare una risposta standard. Sicuramente gli album sono un po’ rock nell’approccio e punk nell’esecuzione… io sono una persona timida, quindi mi esprimo attraverso la musica e mi lascio andare. La mia musica è violenta e dolce, rilassante e viscerale, passionale, cerco di metterci un po’ di tutto, soprattutto quando parlo non solo di storie mie, ma della vita, di quello che vedo».
Anche qui mi hai anticipato la domanda successiva: di cosa parlano i tuoi testi e sono ispirati alla tua vita reale o frutto di fantasia?
«Sicuramente tutto è ispirato a cose reali, e tante volte le cose reali le maschero e le rendo storie, in cui si parla di personaggi fantastici, iperrealistici, ma in generale parto sempre da uno spunto personale, quindi potrei quasi dire che i testi sono autobiografici».
Come componi i tuoi brani? In genere viene prima la musica o il testo?
«Sempre prima la musica. In realtà, dentro ho già il testo perché so qual è stato il momento in cui mi è uscita fuori una melodia e in che stato d’animo ero e so già di cosa voglio parlare, però se prima non c’è la musica io non scrivo il testo».
Componi brani anche per altri artisti, ad esempio Malika Ayane. Come cambia il tuo modo di comporre per altri rispetto che per te stesso?
«Nel caso di Malika, lei mi ha chiesto di scrivere come se lo stessi facendo per me e io così ho fatto».
Spiegaci la tua scelta di cantare in inglese.
«Non me lo spiego! Quando ho cominciato non ho pensato di cantare in inglese per diventare famoso. Facevo le cose nella mia stanzetta e sono uscite in inglese. Quando ho messo la testa fuori hanno cominciato a chiedermi di cantare in italiano, quindi il tentativo di sabotarmi è nato dopo! Io mi sono sempre trovato bene con l’inglese, gli altri insistevano che in italiano è meglio perché siamo in Italia… ma io sono sempre stato bastian contrario fin da piccolo! Più mi dicono di fare una cosa, più metto le barricate. In realtà, ho cominciato a scrivere qualcosa in italiano ma per una cosa mia, non perché me lo chiedono. Mi sono venuti fuori pezzi in italiano, ma anche in spagnolo, in francese: potrei fare dei dischi con l’opzione multilingue come nei DVD!».
Sei in grado di suonare tutti gli strumenti principali di una band e quindi virtualmente in grado di realizzare un album tutto da solo; nonostante ciò nei tuoi due album hai ospitato diversi musicisti. In base a cosa li hai scelti?
«In effetti, per il primo album ero partito dall’idea che volevo fare tutto da solo, ma mi hanno fatto capire che sarebbe stato meglio importare idee nuove, e le persone che ci hanno suonato, suggerite dal produttore, sono state fantastiche. Ho amato così tanto questi musicisti che hanno anche suonato con me dal vivo. E poi c’è una tromba, io la tromba non la so suonare! Anche se in realtà nel secondo disco c’è qualche tromba suonata da me… nel frattempo ho imparato qualcosa! Nel secondo album hanno suonato come ospiti i musicisti abitualmente con me dal vivo; mi sembrava giusto farli partecipare visto che già qualche pezzo lo facevamo in concerto. Amo anche loro, fanno ormai parte della mia famiglia, dormiamo e mangiamo insieme da 5 anni, siamo amici e ci vediamo anche fuori dal mondo musicale».
Dal vivo hai due dimensioni: una elettrica con la band, e una acustica dove sei solo tu e la tua chitarra. Quale preferisci?
«Con la band c’è più soddisfazione perché i pezzi io li penso per una band, però chitarra e voce dà altre sensazioni, sei più nudo e non sai che pubblico hai di fronte, cambia da città a città: c’è quello educato e silenzioso, quello che chiacchiera pur apprezzandoti. C’è più adrenalina perché sai che sei nudo su un palco».
I tuoi primi due album sono abbastanza omogenei fra loro. Cosa prevedi nella tua evoluzione musicale, pensi di introdurre dei cambiamenti stilistici nei prossimi album o vuoi rimanere sempre fedele al tuo stile originario?
«Non lo so. I primi due dischi non li ho pianificati. Nel secondo ci sono brani scritti antecedentemente il primo lavoro. Quando scelgo i pezzi per un album non cerco di realizzare le cose nuove, ma piuttosto qualcosa di omogeneo, per cui un brano scritto 5 anni fa potrei trovarlo attualissimo per il terzo disco, mentre un brano di un mese fa potrebbe ricordarmi una cosa passata e potrei tenerlo nel cassetto per tutta la vita. L’idea è di fare una cosa omogenea, per cui quando si ascolta un disco dall’inizio alla fine si sente un mondo a sé stante, anche se i brani sono diversi tra loro. Ad esempio, nel primo album c’è quello che io chiamo il “pezzo salvia”, An Ordinary Man, che è una canzone allegra ed è di un mondo diverso rispetto agli altri brani, ma mi serviva per spezzare».
Molti ascoltatori di musica “tradizionali” non hanno ancora sentito parlare di te e i tuoi brani non passano a rotazione continua nelle principali radio nazionali, quindi non ti si può considerare un artista “mainstream”. È stata una scelta tua e/o della tua casa discografica o semplicemente stai costruendo la tua carriera per cercare di arrivare al “mainstream”?
«Nessuna delle due cose. Io sto facendo un percorso che non so dove mi porterà… penso che nessuno sappia la ricetta per arrivare al mainstream. Io potrei anche arrivarci con le cose che faccio, come ci sono arrivati i Radiohead, che fanno quello che vogliono e arrivano a gran parte del pubblico; io vorrei fare la mia musica, essere apprezzato per quella senza svendermi e fare il pezzo facile, la musica è quello che ho dentro e tiro fuori, se vi piace bene, se no pazienza. Io sono felicissimo di ascoltare le cose che faccio perché sono le cose che io ascolterei, quindi io faccio la musica che ascolterei… e se fossi un radiofonico passerei la mia musica!».
Tu curi personalmente il tuo profilo Facebook e spesso nella tua bacheca chiacchieri coi tuoi fan e li aggiorni in tempo reale sui tuoi progetti e i tuoi movimenti. Che rapporto hai con loro?
«Buono, soprattutto durante i concerti. Su Facebook non ci sto tutti i giorni, ma quando posso aggiorno, scrivo e chiacchiero con le persone per confrontarmi. Ma soprattutto dal vivo mi piace a fine spettacolo scendere in mezzo alla gente e conoscerla, parlare e avere un confronto con loro; vedo che le persone mi vogliono bene, quindi per ora direi proprio che il rapporto con loro è bello».
Come abbiamo avuto modo di vedere, oltre che per il concerto alla Lomax, sei venuto a Catania per un progetto molto particolare. Dicci di più.
«Il progetto nasce dalla ViceVersa Records, storica etichetta di Catania che si sta rilanciando e per farlo ha deciso di fare una cosa originale che mi è piaciuta molto: creare una collana di vinili dedicata a cantautori italiani e internazionali. Ogni cantautore è stato invitato a Catania per una sessione di tre giorni, durante i quali poteva fare tutto quello che voleva e il risultato verrà “immortalato” per i posteri in un vinile a tiratura limitata, circa 500 copie; in un secondo momento ne uscirà anche una versione digitale. Io sono molto veloce e nonostante ciò ci ho messo tre giorni e mezzo a registrare tutto, però sono molto contento, il risultato mi soddisfa… nel 2012 chi avrà il piacere di ascoltare questo vinile potrà essere d’accordo con me».
Cosa ti piace di Catania?
«Il cibo, il clima… faccio prima a dire cosa non mi piace! Non c’è niente che non mi piace… mi piace tutto!».
Questo album “catanese” verrà stampato solo in vinile, ma ci sono dei tuoi brani extra che sono disponibili solo come download, quindi ti sei mosso tra i due estremi opposti della tecnologia dei supporti musicali. Cosa ne pensi del fatto che in un futuro forse non troppo lontano tutti gli artisti pubblicheranno i loro lavori solo come download e non più su supporti fisici?
«Penso che ormai sia inevitabile! Per questo il vinile secondo me è importante, ha un che di artistico anche a livello estetico, senti il vinile in mano, lo vedi e lo sfogli, è un oggetto che mi dà soddisfazione… il cd non mi ha mai dato soddisfazione, mi è sempre sembrata una cosa fredda e piccola. I download ci saranno finché non inventeranno qualcos’altro: magari ci passeremo telepaticamente le canzoni, il mondo si sta evolvendo a una tale velocità! Forse si troverà il modo di scaricare i brani in modo sempre più legale, anche se la gente si è abituata al fatto che la musica sia un bene comune gratuito… per cui per me diventerà quasi un hobby fare canzoni, anche se personalmente la cosa che mi spinge è la passione per la musica, per cui se la gente non comprerà i miei dischi non smetterò di suonare, lo farò per me e magari non farò sentire nulla agli altri!».
Coi tuoi concerti hai girato moltissimo, suonando spesso e volentieri anche in giro per l’Europa e negli Stati Uniti. Che differenze ci sono tra il pubblico italiano e quello estero?
«Partiamo dal presupposto che quando sono sul palco potrei anche avere davanti gente che fa campeggio e non mi cambierebbe nulla, quindi da sopra è uguale. Però devo dire che come riscontri oggettivi all’estero sono molto apprezzato, soprattutto in Inghilterra, U.S.A., Francia e Germania… ho il mio seguito e quando posso suono volentieri all’estero. Il pubblico italiano negli anni ‘70/’80 era il peggiore di tutti, infatti non veniva nessuno a suonare qui, tiravano qualunque cosa a chiunque; poi negli anni ‘90/2000 il pubblico è diventato caloroso, si entusiasmava ai concerti, forse anche perché finalmente ritornavano gli artisti a suonare. Adesso non c’è più amore per i gruppi… a Catania e in tante altre città italiane c’è passione e un entusiasmo incredibile, ma spesso vedo il pubblico con le braccia conserte, un approccio poco fisico, con poca partecipazione, sembra quasi che la reazione sia la stessa per qualsiasi artista; magari è una reazione tiepidamente calorosa ma sempre molto composta. Magari siamo noi musicisti della nuova generazione che non riusciamo a essere così icone, come per esempio lo è Springsteen; lo invidio perché i suoi fan si mettono la fascetta, sudano e si vivono il concerto».
Raccontaci qualche aneddoto dai tuoi diari “on the road” che ricordi con piacere.
«Ce ne sono tanti… al T.I.M.E., la fiera della Musica Indipendente a Parigi, ci hanno detto che potevamo suonare solo un tot, perché c’erano altri gruppi dopo; quando finimmo il pubblico era in piedi a chiederci il bis, che fu concesso dagli organizzatori, e quel giorno fummo gli unici a farlo. Ad Austin, Texas, per il South by Southwest, il principale festival americano della musica emergente, all’Hilton Hotel c’erano una trentina di persone, tra cui il produttore degli Stone Temple Pilots, qualcuno gli consigliò di venirmi a vedere e rimase molto colpito, siamo ancora in contatto e stiamo cercando il modo di lavorare insieme. Durante un concerto a Hollywood, il produttore dei Metallica venne da noi dicendoci di non aver mai sentito nulla di simile… all’estero non è facile che succedano queste cose, in quegli ambienti la musica ha un livello altissimo, ma quando vai e ti riconoscono originalità e talento fa piacere».
Per concludere, anticipaci qualcosa dei tuoi progetti futuri.
«Sto lavorando ad alcune colonne sonore, la più imminente è di un horror italiano, Mr. America, sia strumentale che con canzoni, uscirà l’anno prossimo; e un’altra per un film italiano recitato in spagnolo girato a marzo, mi sono introdotto nell’ambiente cinematografico. Ho in programma una pellicola musicale, Nowhere, ma ci stanno facendo attendere per realizzarla. Non è un progetto semplice, l’idea di fare in Italia un film musicale di qualità ha sfiorato la mente di pochi e bisogna convincere i produttori, a cui sono già piaciute sia la storia che la musica, che il progetto è valido e che c’è un mercato. Io penso che anche chi non è appassionato alla mia musica, ma alla musica in genere, potrebbe andarlo a vedere anche solo per curiosità. Per quanto riguarda il mio terzo album, i brani sono pronti per essere registrati in studio, ma sto cambiando etichetta discografica e quindi sto aspettando di firmare con la nuova, poi decideremo insieme. Non sono ancora in grado di dire se uscirà entro il 2012».