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1982. In Svezia il punk non è morto.
Nello stesso anno, però, una malattia di morti inizia a farne davvero tanti, troppi, e sono tutti omosessuali che si ritrovano improvvisamente il corpo ricoperto di ematomi e crosticine che non se ne vanno, che vedono il loro fisico deperire e asciugarsi e le forze abbandonarli.
L'AIDS è arrivata, e sembra che nessuno, né la medicina, né il governo riesca o voglia fermarla.
Ned Weeds viene letteralmente investito da questo ciclone, vedendo a poco a poco morire i suoi amici e conoscenti, reagendo fin da subito con l'unico sentimento che apparentemente riesce a provare e ad esprimere: la rabbia.
Si arrabbia contro un sistema che li taglia fuori dalla ricerca, si arrabbia contro un governo che tace anche il nome della malattia, si arrabbia con la società, che li emargina ancora di più, subito dopo quegli anni spensierati della rivoluzione sessuale che permetteva finalmente loro di esibire la sessualità e l'amore in feste e festine, si arrabbia con il fratello, che ancora non lo accetta, non lo capisce e giudica la sua scelta una malattia, per cui per anni lo ha mandato dallo psicologo, e si arrabbia anche con i suoi amici, giudicandoli in continuazione, ritenendoli codardi, poco combattivi, poco coinvolti in una battaglia che, secondo lui, dovrebbe essere portato avanti a suon di grida, e, infine, si arrabbia con il destino, che cerca di toglierli l'amore che finalmente è riuscito a trovare, e che ora non può godere ma deve curare.
Si arrabbia troppo, Ned, tanto da farne un personaggio scomodo, francamente odioso, e seppure la ragione penda dalla sua parte, si fatica non poco a concedergliela.
Ma c'è qualcun altro che questo sistema non lo sopporta più, è Emma Brookner (una sempre più convincente Julia Roberts dopo Osage County), la dottoressa che per prima (filmicamente parlando) individua la malattia e cerca senza fondi sufficienti e senza ben sapere cosa sia possibile fare, se una cura possa esserci, vedendo spegnersi i suoi pazienti uno a uno.
Emma c'è l'ha con la vita, che l'ha costretta in una sedia a rotelle fin dall'infanzia a causa della polio, ce l'ha con il governo che non stanzia fondi, c'è l'ha con gli altri medici che per paura di un contagio si tengono distanti dal suo reparto.
E' quindi un clima quasi incomprensibile quello che Ryan Murphy ci mostra, un clima in cui non solo la parola AIDS, ma anche quella gay fa paura e dove i morti si accumulano uno dopo l'altro ma non si cerca nemmeno di trovare una soluzione, evitando il problema, evitando di dare soldi alla ricerca, evitando anche di parlarne.
E come purtroppo sappiamo, il problema ancora non è risolto, e vedere quanto accadeva ormai 30 anni fa, fa ancor più riflettere il silenzio e la convinzione di scampato pericolo in cui si crede di esistere.
Spiace però che il protagonista di The Normal Heart sia un un Mark Ruffalo così difficile da amare e da sopportare, che urla e sbraita facendo facilmente intuire la natura teatrale del film, condito com'è di monologhi ad effetto dove le parole, gridate, pesano come macigni.
Allo stesso modo convince poco la prima parte del film, che corre via troppo veloce, accelerata all'inverosimile e con scelte di regia e di montaggio frenetiche che rallentano, finalmente nella seconda parte, quella decisamente più malinconica, dove le lacrime iniziano a sgorgare assieme ai singhiozzi, e dove anche la rabbia di Ned trova il suo posto.
A convincere è comunque una storia che non può lasciare indifferenti, portata in vita da un cast perfettamente in parte che sicuramente farà incetta di Emmy (Matt Bomer, Jim Parsons, Taylor Kitsch, Alfred Molina e pure brevemente Jonathan Groff di Looking)
E si finisce con un finale un po' mozzato, nessun happy end, nessuna soluzione miracolosa che salverà le ormai migliaia di infetti, nessuna vittoria che possa colmare l'ego di Ned.
Perchè nessun Happy end, nessuna soluzione miracola e nessuna vittoria c'è stata.
C'è, forse, quando a queste storie, e a questa storia, si dà voce.
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