Chi mi segue sa di quanto ho amato Scarlett Johansson. Lo sa soprattutto la signora Jean Jacques, che non ha mai ricambiato la passione - a lei garba Channing Tatum e dice che la biondocrinuta attrice sembra un carlino. Col tempo però è successo qualcosa di strano... vuoi perché crescendo i tuoi standard cambiano, vuoi perché ora è felicemente ammogliata e madre, sancendo un certo status che la rende intoccabile... o sarà perché dopo anni di fantasticherie è arrivato Under the skin che ha dato luce a tutti i miei desideri di adolescente, riservandomi anche qualche delusione... però la mia passione verso di lei è andata scemando. Bella lo è sempre, per carità, ma non mi cattura più come un tempo, a dispetto di una Julianne Moore che nonostante gli anni passino conserva sempre un fascino che la sancisce come una delle donne più belle di sempre. Il posto della fascinosa 'scarlatta' ora lo occupa Zoe Kazan, che magari non si avvicina a quell'ideale di perfezione che sembra volerci imporre la società ma ha una bellezza tutta sua, mano omologata e quindi più fascinosa. Poi lei è anche l'autrice di uno script bellissimo come quello di Ruby Sparks, quindi la sua bellezza aumenta a dismisura a prescindere motivo in più per andare a recuperare dei film solo e unicamente perla sua presenza, come quello qui recensito, da noi passato praticamente in sordina.
Audrey e Laurel son due sorelle gemelle. La prima è forte, indipendente e con una florida carriera, mentre la seconda ha sacrificato la propria assistenza per poter star vicina al padre e rimanendo sempre relegata in un angolo. Quando un incidente stradale causa la morte di Audrey, Laurel prende il suo posto, cercando il riscatto che ha sempre desiderato. Ma indossare i panni della gemella la porterà a scoprire se stessa...
Un soggetto simile è uno di quelli che scottano. Il tema dell'identità è uno dei più affascinanti di sempre e, da quando la modernità ha iniziato il suo lento percorso, si fatto prepotentemente strada in tutte le forme della narrativa. Quando una società codifica dei canoni di successo è impossibile non mettere in dubbio se stessi, specie quando si è costantemente alla mercé del giudizio altrui. Pensiamo ai social network, a come alla fine pure quelli sono di utilizzo per confermare nella mente di coloro che consociamo non tanto quello che siamo, ma quello che vogliamo sembrare di essere. Come se il mettere una foto delle nostre vacanze al mare con la famiglia, dove siamo in uno scenario idilliaco, colpiti dal sole e con un sorriso che va da un orecchio all'altro, dovesse suggerire ai nostri follower che siamo delle persone felici e da invidiare. C'è chi in questo ci sguazza ed è propriamente a suo agio, chi invece sta alle regole del gioco (ma anche l'infrangere il comune andazzo è un modo per esprimere il medesimo concetto) ma finisce per sentirsi schiacciato da questi 'obblighi'. E' giusto? E' sbagliato? Non lo so. Sono arrivato a un punto in cui non mi sento più di essere giudice di (quasi) nulla, al momento preferisco vivere la mia vita ed essere giudicante solo e unicamente su quello che faccio, ma non posso negare che la tematica ci sia e, in certi casi, diventi proprio pericolosa. Ed è proprio quello che, con qualche passo falso e diverse idee felici, vuole fare questa atipica commedia, forte del suo essere indie e giocando sulle regole che anche quel tipo di cinema ha imposto. The pretty one offre un ritratto di una persona strana, il classico soggetto borderline (guarda caso una pittrice, quindi il tema dell'immagine e dell'impressione da dare al prossimo è più forte che mai) che io apprezzo sempre e che in questa storia ottiene finalmente il suo momento di riscatto. Un riscatto anche solo d'immagine, che ci fa capire quanto sia importante la stessa anche se ci ostiniamo a sentenziare il contrario, perché è innegabile che la bella Kazan sia immensamente più figa col secondo taglio di capelli, non quando si presenta come la sfigatona trascurata a inizio film. Eppure è sempre lei, la medesima ragazza, solo con dei cambiamenti che la migliorano considerevolmente e che le fanno raggiungere quello status ottenuto dalla gemella. Essere uguali però non significa essere identici, e la giovane protagonista lo impara presto, dovendo destreggiare una vita molto più grande e alla quale non era abituata, dovendo gestire situazioni - una su tutte, quella sentimentale - che con le sue scelte si era preclusa. E qui avviene la cosa davvero bella del film, ovvero lo scoprire come, alla fine, nemmeno Laurel aveva la vita da sogno che aveva volto far credere a tutti, facendo così crollare le certezze della ragazza, che verrà schiacciata dal peso del suo segreto. Tutto molto figo e tutot molto bello, eppure ci sono diversi problemucci sul percorso. La sceneggiatura, scritta dalla regista Janée LaMarque, pecca soprattutto nei dialoghi, fin troppo artificiosi nella prima parte, mentre il comparto visivo fa solo da tramite per quella che è la natura filmica del tutto. Una natura fin troppo statica e che in certi punti ammazza un poco il ritmo, insieme a un finale che offre delle motivazioni non troppo convincenti e un voler accontentare tutti che, in un paio di momenti, mi ha vagamente indispettito. Ma mantiene tutta la propria coerenza e leggerezza di base, non risultando mai troppo sgradevole o artificioso e offrendo una tematica forse fin troppo complessa per quelle che erano le sole forze dell'autrice, che comunque riesce a portare a casa un finale dignitoso. La ricerca dell'identità, questo vale per ognuno di noi, avviene con diversi ostacoli, sia nella vita reale che nella sua rappresentazione artistica. Ma avviene, ed è proprio questa la cosa importante. Se qualcosa succede, vuol dire che si sta vivendo.
Per me rimane una pellicola a metà strada, nonostante la curiosità e l'ambiguità del tema trattato. Ma è un visione che, per quanto non necessaria, risulta piacevole. Anche solo per la bella Zoe.Voto: ★★★